Vista dall’ alto, la vecchia città di Mykonos, bianca come una macchia di latte che si spande verso il mare scuro, punteggiata dai tetti e cupole delle chiese, celesti come il cielo pulito dal Meltemi o rossi come i fiori di lentischio.
La schiera di mulini a vento – tanto simili a quelli di Consuegra da sembrare in attesa di un Don Chisciotte in vacanza – guardano dritto verso la antiche case dei pirati di Little Venice, costruite a filo d’ acqua, con le onde che di tanto in tanto entrano a far visita.
Le stradine tortuose, bianche e celesti, un intrico di anfratti, angoli, scale, vicoli ciechi dove si divertono i gatti e dove ci si può perdere con incoscienza tanto prima o poi si tornerà al mare.
Ecco, la bellezza.
Ma questa è solo una cartolina.
La realtà è fatta di un deposito di auto abbandonate, arrugginite e polverose proprio sotto al poggio che regala la superba vista sulla città vecchia; dei disco bar di Little Venice che hanno preso il posto dei pirati ed aspettano il tramonto per riempirsi di gente che vuole applaudire il sole che cala; di vicoli assediati dalla paccottiglia e rigurgitanti folla che nemmeno Venezia a Carnevale. Non c’è posto per fermarsi un attimo ad ammirare una chiesa, c’è subito dietro qualcuno che ti spinge perché deve comprarsi una maglietta.
Mykonos ha venduto la sua anima al turismo, e forse ha fatto anche bene, perché qui della crisi che ha sconvolto la vita dei Greci sanno per sentito dire. Ma è un investimento che non avrà ritorno a lungo termine, quando l’ onda lunga dei villeggianti gaudenti si sarà ritirata. E prima o poi succederà. Guardate cosa sta succedendo con il Covid…..
L’ isola non ha più una sua economia produttiva, tutto si basa sui turisti in arrivo.
Non si pesca più, non c’è più allevamento. Il mercato del pesce è ridotto ad un banchetto di cemento nel mezzo del porto, ed il latte arriva con i traghetti.
Trovatelo un pezzo di Kopanisti, il formaggio piccante fatto con il latte di mucca, pecora e capra. Nei supermercati, forse; incellophanato, pastorizzato e privo di sapore. Era una specialità dell’isola, quando ancora vi pascolavano gli animali.
Ora ci sono boutique hotels ed infinity pools. D’ accordo tutto bello.
Il problema sarà riconvertirsi quando l’ industria del turismo avrà scoperto una nuova meta da sfruttare. Perché bisognerà ricominciare da zero, con poche risorse, senza acqua di fonte e senza più’ animali.
Ma qui non ci si pensa. E’ come andare a costruirsi casa sulle pendici di un vulcano. Bella vista e terreno fertile.
Poi arriva l’ eruzione.
Già che ci siamo, non ti piacerebbe un bel libro da tavolo, con tutte le mie immagini delle isole Cicladi?
Un libro da sfogliare per viaggiare con la mente in attesa di poterlo fare di nuovo davvero!
Nonostante i ritardi e gli inconvenienti, l’arrivo nei Balcani è da favola: la luce eterea del tramonto si spande sull’ arcipelago mentre il vento trasporta l’ odore speziato dei pini.
Le Bocche di Cattaro sono l’ enciclopedia acquatica delle contraddizioni della post Jugoslavia: scorci di una bellezza abbacinante, carcasse della marina jugoslava, antichi forti asburgici a presidio degli stretti e relitti di pescherecci; paesini veneziani dalla grazia immutata ed acque inquinate e spesso maleodoranti; il fascino e la pietra bianca di Cattaro sovrastate dalle mastodontiche navi da crociera che attraccano e vomitano gitanti frettolosi e distratti.
Proprio ai margini dell’ Europa, francobollato da parenti serpenti serbi ed a contatto con l’ Albania, il Montenegro è ancora alla ricerca della sua strada, economica e politica, ma nel frattempo riesce ad attrarre ricchezza verso la costa sfruttando le sue bellezze naturali e la cordialità della sua gente, che è vero che ha bisogno di venderti qualcosa per vivere ma lo fa con cortesia e spesso con grazia.
Perast: quattro case che scendono velocemente dal fianco della montagna fino al bordo del mare. Ma proprio bordo. Puoi sederti su una panchina per bere una birra a venti centimetri dall’ acqua. Quelle strade jugoslave costruite proprio a filo d’ acqua, senza protezioni, che mi hanno sempre affascinato ed incuriosito. Ma un’ onda di 50 centimetri qui non arriva mai?
Chiese, antiche dimore veneziane, case di pescatori e terrazze di ristoranti si inseguono senza soluzione di continuità.
Pochi se ne accorgono, perché i buoni sovrani sono elusivi e non impongono la loro presenza, ma a comandare a Perast sono i gatti. Schizzano ovunque, coccolati dagli abitanti del posto, rifocillati, ospitati nelle notti d’ inverno. Sono loro a permettere l’ accesso ad un vicolo, sono loro che, guardandoti di sottecchi, controllano che tu esca da una chiesa senza aver toccato nulla ed accettano sdegnosamente qualche coccola in cambio del favore che ti fanno mangiando il cibo che offri loro.
In fondo Perast è un borgo di chiese e gatti. Forse ci sono più gatti, ma forse, perché di chiese ce ne sono a dozzine, grandi e piccole, restaurate e in rovina.
Il regno felino si estende anche sul mare, fino alle due isole a qualche centinaio di metri dalla costa. Gli umani possono visitarne solo una, l’ altra il clero se la tiene tutta per sé.
Nostra Signora delle Rocce è una chiesetta con una cupola azzurro cielo che occupa la metà di un’ isolotto artificiale a qualche centinaio di metri dalla costa. Pietra bianca dalmata dappertutto, una vista sorprendente sulle Bocche e troppi turisti in giro in uno spazio troppo stretto. Ricercatori di pace e misticismo prego rivolgersi altrove. Magari di fronte, ma la chiesa di San Giorgio, sull’altra isola, è off limits. Per gli umani. I sovrani se ne infischiano dei divieti.
Cattaro non ha la raccolta bellezza di Perast, ma ha poco da invidiare al fascino di Zara o di Spalato se non per le dimensioni e per una certa aria di decadenza che nasce dalla storia, da una relativa mancanza di risorse e dall’ assenza dei contributi europei.
UNESCO protegge, ma non finanzia.
Vicoli color crema, scalini ed angoli appartati dappertutto, una piazzetta alberata dove regnano (anche qui!) i gatti. E non lo fanno con l’ altero understatement di Perast, no qui i felini regnano in maniera evidente, prendono possesso degli spazi, invadono le panchine, aspettano il tributo di cibo da parte dei bipedi umani.
Ma perché tanti gatti lungo queste coste? Una teoria che ha fatto breccia fra abitanti del posto fa risalire la presenza dei felini alla tradizione mercantile e marittima di queste coste. Nei secoli scorsi le tranquille acque della baia, protette da qualsiasi maroso, erano l’ approdo perfetto per i mercantili che facevano la spola tra l’ Adriatico e l’ Oriente. E sulle navi c’ erano gatti, per cacciare i topi, raccontano qui. Ed è normale che un po’ di questi gatti siano rimasti a terra dopo la partenza del loro vascello. Questa è la versione degli abitanti del posto, liberi di crederci. Magari vi ritroverete a rimuginarci sopra affrontando l’ impervia salita alle mura della città vecchia. Non lasciatevi spaventare dalla fatica, che è veramente tanta: sarete ricompensati con una vista spettacolare di Cattaro e della baia!
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E poi la fine del percorso arriva quasi inattesa: una casa di legno e neanche una piattaforma.
I binari terminano lì e poco oltre inizia l’ Ucraina.
Non resta che sganciare il carro con il fieno e dire addio al buon profumo che ci ha seguito per un giorno e mezzo.
I vagoni con il carico da trasportare a valle sono già pronti, quelli vuoti vengono sganciati per il prossimo carico; la locomotiva esegue la manovra e si posiziona in coda al convoglio. I ganci scattano, il treno è pronto.
La via del ritorno sarà più veloce, con la locomotiva a rallentare i vagoni in discesa libera ed i frenatori al lavoro di gran lena a chiudere e rilasciare le ganasce. Perché poi bisogna anche evitare che i freni si surriscaldino.
Quando era ancora vivo, Claudio Lolli cantava della tristezza del viaggio di ritorno:
dopo ogni esperienza, ogni fuoco ogni avventura, c’è la triste partenza
l’ esorcismo per questo spleen è spesso semplice:
un treno che mi porta via, al mio fondo di mare, alla mia osteria.
Lungo la linea della Mocanita osteria non se ne trovano, e però quando siamo ormai in prossimità della stazione, quando la valle è larga e quasi pianeggiante, con il Vaser che scorre placido nel suo letto di sassi, ci si offre qualcosa di simile e sorprendente: c’è della gente attorno ad un fuoco, un uomo di mezza età indaffarato attorno ad un gran recipiente di rame e tre donne che lo aiutano.
Ma cosa stanno facendo?
Intendersi è come al solito difficile. Hai voglia a dire che il Romeno è una lingua di origine latina. Dopo secoli di slavizzazione i suoni sono di gran lunga cambiati e per chi non la conosce la lingua sembra più simile all’ Ucraino che al Latino.
Per fortuna interviene uno dei Daniel del treno che fa da traduttore e mi spiega.
Stanno distillando grappa! La famiglia si sta preparando la razione per l’ inverno.
La grappa purifica, disinfetta e santifica, dice il proverbio.
Se poi è fatta con le proprie mani, ancor di più, aggiungo io.
Ma con l’ acqua di un fiume che scende da una montagna crivellata di miniere e dove chi lavora a segare gli alberi non ha a disposizione servizi igienici?
“Si certo che l’ acqua del fiume è inquinata – risponde Daniel – ma non è un problema, perché viene adoperata solo per raffreddare l’ alambicco e non entra in contatto con i liquidi alcoolici. “
Una prova sul campo della qualità del prodotto con estrazione diretta a mezzo di una caraffa di plastica, mi convince che Daniel ha ragione.
Una caraffa di grappa! Buona e profumatissima. Però non l’ ho bevuta tutta…
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E’ quasi mezzogiorno ormai, ma la luce resta sfuggente ed il fumo della locomotiva si mischia ancora con le nuvole; il cielo è sempre più basso mentre Cozia continua pazientemente a trascinare su per la valle il suo carico. O forse siamo noi che ci stiamo avvicinando alle nuvole mentre continuiamo lentamente a salire.
Sotto il cielo grigio tutto è verde. L’ occhio umano è più sensibile alle sfumature del verde rispetto agli altri colori; è un antico retaggio di quando vivevamo nelle foreste ed eravamo allo stesso tempo prede e predatori. Poter distinguere sottili variazioni nel verde costante che ci circondava ci aiutava a definire i pericoli ed a scorgere il nostro prossimo pasto. Qui, oggi, le sfumature di verde ci sono probabilmente tutte, strette tra il fiume e l’ acqua che cade dall’ alto. Ma non ci sono prede o predatori in giro. Solo un trenino che sbuffa salendo ed una vaga sensazione di noia che si sta impossessando di me.
Siamo entrati ormai nell’ ultimo tratto della ferrovia; questo è il regno dei boscaioli. Ma non boscaioli alla Ion con ascia e cavalli. Qui ci sono motoseghe e trattori per trascinare i tronchi fino al deposito. Qui si lavora a ritmo industriale per rifornire di legno la fabbrica.
La valle ormai è strettissima, c’è spazio giusto per il treno e per il fiume, che qui è ancora un ruscello. Piove sempre, acqua sottile ma costante che ti inzuppa l’ animo.
Oltre al profumo pungente delle conifere, nell’ aria c’è ancora l’ aroma dolce del fieno che stiamo trasportando da quando siamo partiti. Profumi di primavera in una grigia giornata d’ autunno.
Attraversiamo il villaggio fantasma dei minatori. “Qui vivevano in tanti – mi racconta un altro Daniel – avevano elettricità e televisione, stanze riscaldate e costruzioni di cemento, cose che a valle gli altri potevano solo sognare.”
Comodità destinate ad alleviare il rigore di una vita trascorsa sottoterra ad estrarre ferro, piombo, carbone.
Con la transizione all’ economia di mercato le miniere sono passate in mano di investitori stranieri, più attenti ai costi. E si sono rivelate dei pessimi affari. Per ricavare utili si è deciso di risparmiare dove si poteva, ovvero sul personale e sulla sicurezza. Incidenti ed inquinamento erano all’ ordine del giorno.
Così, tra deficit di bilancio ed istanze ecologiche, le miniere di questa valle hanno finito per chiudere.
Peccato che non si sentano voci ecologiste a denunciare lo scempio che si sta realizzando di queste foreste, che sono ancora oggi dimora di una notevole biodiversità, dall’ orso bruno al lupo.
L’ abbattimento di questi alberi secolari procede senza sosta. E’ vero, per ogni albero abbattuto ne viene piantato un altro. Un giorno queste pianticelle nane cresceranno; se nel frattempo le piogge e la neve non si saranno portate via tutto il terreno. Ma ci vorranno comunque decenni. Tempo sufficiente per far sparire la biodiversità dell’ area. Cosa se ne fanno linci, orsi e lupi di un crinale di montagna tappezzato di abeti nani?
“E’ l’ ipocrisia ecologica dei paesi ricchi – conclude Daniel – che salvaguardano le proprie foreste e comprano il legno – che comunque serve – a quattro soldi dai paesi dell’ Est Europa, dove evidentemente la biodiversità è meno importante.”
Fine 5 di 6. La prossima puntata sarà pubblicata domenica 26 maggio Le altre puntate sono qui:
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Mattina presto, la luce filtra appena tra i picchi dei Carpazi e le cime delle conifere.
Fa freddo. Le nuvole basse si confondono con il fumo della locomotiva che acquista pressione, mentre i sensi ancora intorpiditi dal sonno rifiutano di definire le ombre informi degli oggetti attorno.
In questo mondo privo di contrasto, sono le sensazioni a predominare: il silenzio e l’ umidità, avvertire la massa nera della locomotiva, senza vederla del tutto.
I pensieri sono le ombre delle nostre sensazioni, diceva Nietzsche. Sempre più oscuri, più vani, più semplici di queste.
Un brontolio dello stomaco mi ricorda che sarebbe anche ora di colazione.
Abbiamo dormito in capanne di legno senza elettricità e senza servizi, ma la notte è stata breve, prima delle quattro ha suonato la sveglia per i macchinisti.
Nel freddo dell’ estremità della notte tocca a loro riaccendere il fuoco e riportare in pressione la locomotiva; perché l’ ombra sprigionerà una scintilla, è già stato scritto. Ci vogliono ore, ed è solo l’ inizio di una lunga giornata.
Ion porta in testa un cappello di feltro grigio e cammina con le ginocchia piegate, come i contadini ucraini di Joseph Roth. In fondo la Rutenia è proprio lì, dietro quella cresta di monti. Le sue mani grosse e pesanti e la sua risata aperta hanno dominato la scena a cena, ieri sera.
Tutti riuniti sotto un chioschetto circolare, i macchinisti, i meccanici, Ion ed io, circondati dalla foresta e dall’ aria frizzante della montagna; la conversazione è andata avanti a base di birre e storie inverosimili di sesso e battute vecchio stile sulle donne. Insomma, credo fosse così, anche se capire era difficile. Poi è finalmente arrivata la zuppa, calda e ricca, e le voci si sono quietate.
Appena il cielo si è schiarito, Ion è partito con la sua scure ed i suoi cavalli, seguendo per un tratto i binari; poi si è perso tra gli alberi del crinale. E’ un boscaiolo alla maniera antica: niente mezzi meccanici per il taglio degli alberi e per il trasporto dei tronchi. Si affida alle sue gambe storte, alle sue braccia e, per il trasporto, ad un paio di cavalli.
Giorno dopo giorno, con il sole e con la pioggia, ed ecco spiegato anche quel cappello.
Lo sfruttamento di queste immense forteste iniziò nel diciannovesimo secolo, quando questi posti appartenevano all’ Impero Austro-Ungarico. I grandi proprietari terrieri arruolarono Italiani e Sloveni per dare avvio all’ opera, perché questi conoscevano l’ uso della sega, mentre da qui non si andava oltre l’ ascia.
Ion abbatte gli alberi, con l’ aiuto dei cavalli trascina i tronchi a valle e li accatasta, in attesa che il treno li prenda in carico e li porti alla fabbrica.
Prima della costruzione della segheria a valle e quindi della ferrovia, i tronchi venivano fatti scivolare giù per mezzo di canalette costruite lungo i fianchi della montagna. E poi per fluitazione continuavano il loro viaggio verso le acque più profonde del Tibisco.
Ion ha una forza incredibile, riesce a mantenere due cavalli e gli servono pochi colpi per abbattere un albero; ma questo non toglie nulla alla gentilezza innata del suo carattere e dei suoi gesti. Me ne accorgo quando si china a raccogliere un porcino nascosto sotto un tronco marcio e me lo mostra. Ha mani grandi ma non tozze e dita lunghe dalle unghie sorprendentemente ben curate. Non la diresti la mano di un boscaiolo, ma poi cambi subito idea quando lo vedi al lavoro.
Fine 4 di 6. La prossima puntata sarà pubblicata domenica 12 maggio Le altre puntate sono qui:
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Dopo due giorni di viaggio e 600 chilometri di strada, finalmente una birra al piccolo bar della stazione Mocăniţa di Viseu de Sus.
Si chiama Elefant, una discordanza assoluta.
Da queste parti avrei capito se si fosse chiamato Bar dell’ Orso. Ma gli elefanti in Romania?
Alexander Elefant possedeva una segheria a Viseu de Sus ed è stato l’ ultimo Ebreo a vivere da libero nel paese. O, se preferite, l’ ultimo adessere deportato,
Siamo ai bordi della Galizia, un tempo melting pot di razze e culture, luogo dove convivevano (non sempre pacificamente) Tedeschi, Polacchi, Ruteni, Lituani ed Ebrei.
Tutto fu spazzato via dai Nazisti, soprattutto gli Ebrei.
Viseu de Sus ha l’ aspetto di un ordinato paesino. La carrozzabile lo attraversa in lunghezza ed ai suoi bordi la maggior parte delle abitazioni ha un piccolo giardino; poi c’è la piazza, il municipio, il supermercato e le chiese. Cattolica ed ortodossa.
E’ tutto relativamente nuovo, in cemento armato o in mattoni.
Settant’ anni fa Viseu era un tipico shtetl centroeuropeo, con le case di legno e le strade in terra battuta. I suoi circa quindicimila abitanti erano per un quarto ebrei, per un altro quarto romeni e per il resto tedeschi, ungheresi, ruteni (gli attuali ucraini). C’ erano 14 sinagoghe ed una scuola religiosa ebraica.
Oggi gli abitanti sono sempre quindicimila, ma non c’è più nessun Israelita. La differenza l’ ha fatta tutta una sola notte del 1944, quando gli Ebrei del circondario furono caricati sui treni e spediti ad Auschwitz.
Ne sopravvissero poche centinaia, che preferirono non far mai più ritorno a Viseu ed emigrare altrove. Uno solo, Pastor Friedmann Mendel, scerlse di tornare e visse fino al 1998 in un paese che non era più il suo e dove non poteva più neanche pregare dato che le sinagoghe sopravvissute alla distruzione nazista furono man mano abbattute. L’ ultima nel 1977. Le è sopravvissuto il cimitero.
Il piccolo caffè Elefant, è ospitato nell’ ultima casa in legno tipica degli shtetl ancora esistente in paese, unica scampata alle devastazioni della guerra. Originariamente sorgeva sull’ altra sponda del fiume; è stata, smontata e ricostruita qui, pezzo per pezzo, con amorevole cura, per ospitare oltre al caffè, un commovente micro museo della storia degli Ebrei del posto.
Al caffè-museo Elefant sono state ricostruite le modeste condizioni di vita del tempo: il principale pezzo di arredamento è un tavolo in legno con qualche sedia. Ai muri, tabelloni informativi in Romeno, Tedesco ed Ebraico e fotografie dell’ epoca, che fanno rivivere la vita dello shtetl: bambini sorridenti, rabbini ieratici ed un sottofondo di povertà vissuta con dignità.
Sul tavolo c’è il registro degli ospiti ed un po’ di documentazione cartacea.
In un’altra stanzetta c’è anche una biblioteca, con vecchi libri ebraici.
La Galizia era terra di uomini e libri, raccontava Celan, che era nato a poche centinaia di chilometri da Viseu, a Cernăuți. Cernăuți oggi è in Ucraina e si chiama Černivci, a conferma di quanto lioquidi siano i confini in questo fazzoletto di terra..
Uomini e libri. Ma sono stati soprattutto questi ultimi a salvarsi dalla barbarie. Neanche in tanti, ma comunque più di uomini e donne.
Quelli della biblioteca del museo chissà come sono sopravvissuti ai pogrom.
Forse per lo stesso straordinario caso che salvò i libri di Imre Toth, il filosofo e storico della matematica (anche’ egli ebreo), nato a pochi chilometri da qui e sopravvissuto agli orrori della guerra solo perché nel frattempo era stato incarcerato per motivi politici e riuscì a mescolarsi con i delinquenti comuni, sfuggendo alla deportazione. Si racconta, dunque, che quando la sua famiglia fu deportata, il padre, abbandonando la casa, che non doveva essere granché diversa da questa dove è ospitato il museo Elefant, lasciò sul tavolo una lettera indirizzata “al Vincitore” che diceva più o meno: “La prego, io sono vecchio, ho 56 anni… ciò che ho messo insieme nella mia vita, questi libri, appartengono a mio figlio. Prego di non toccarli. Quando i Romani hanno occupato Siracusa hanno trovato il vecchio Archimede che disegnava cerchi sulla sabbia. E questi ha detto al soldato che stava per ucciderlo di non toccare i suoi cerchi.”. Sembra incredibile, ma quando Toth tornò a casa dopo la guerra la trovò completamente devastata; ma i suoi libri erano ancora tutti lì.
Sono in pochi a conoscere l’ esistenza di questo toccante museo; in tanti vanno a visitare il memoriale delle vittime del comunismo e della resistenza nella vicina Sighetu Marmației, e si dimenticano di altri orrori. E forse è una rimozione di memoria preordinata, non casuale. I più giovani già ignorano quello che è successo fino al 1944 nella loro città natale. Invece sanno perfettamente quello che combinarono gli uomini di Ceaușescu.
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Inizia oggi il racconto di un viaggio nel Maramures, nel Nord della Romania, ai confini con l’ Ucraina.
Sono partito con l’ idea di percorrere per intero la Mocăniţa, l’ ultima linea ferroviaria forestale ancora funzionante, con locomotive a vapore e scartamento ridotto dei binari.
Il viaggio per raggiungere la ferrovia è stato però interessante quanto il tragitto lungo la Mocăniţa.
Ve lo narro a partire da oggi, accompagnando il racconto con le mie fotografie.
Piove, piove, piove.
Solo grigio e nuvole basse sul verde costante di questa pianura. Infinita come la pioggia che viene giù. E sotto questa pioggia gli Ungheresi imperterriti vanno in bicicletta.
Non è il miglior modo di iniziare il viaggio e mentalmente mi maledico per aver scelto di cambiare il mio itinerario e volare a Budapest.
Ho solo seguito un consiglio: la strada più breve per il Maramures parte dalla capitale dell’ Ungheria, mi hanno detto. Dimentica Bucarest. Troppe montagne in mezzo, e strade improbabili.
E così mi sono ritrovato nella puszta bagnata a puntare verso il nord rurale della Romania.
Qui – nascosta in un angolo della valle di un fiume che viene giù dalle montagne che segnano il confine con l’ Ucraina – sbuffa ancora Mocànita, l’ ultima ferrovia a vapore commerciale funzionante in Europa.
L’ orizzonte è piatto, tutto è basso, le case sono basse, anche il cielo è basso.
Gli spazi invece sono immensi, l’occhio quasi non trova ostacoli che non siano le nuvole. Penso a lunghe passeggiate in questo verde tra animali ed uccelli, anche se le cicogne sono già volate via.
Per andare dove sto andando io, non ci sono guide turistiche. Alla Feltrinelli non ne hanno. Ed anche a cercare su Internet “Maramures” o “Mocăniţa” non è che si trovi molto, giusto qualche sito istituzionale.
Ma in questa epoca di tecnologia, il navigatore GPS mi conforta con la notizia che ci vorranno ancora quattrocento chilometri di rettilineo prima di raggiungere le alture che annunciano i Carpazi.
Per ore il viaggio è solo noia; poi le prime curve e si entra in questa strana terra che è ancora un po’ Kakania ed un po’ Unione Sovietica; antichi edifici imperial-regi in rovina e casermoni brutalisti che non se la passano meglio. Chiese ortodosse. Città con un chiaro stampo austroungarico ma prive di una precisa identità culturale.
Questa è un’ estremità recondita dell’ impero eurounito, che qui fa sentire poco il suo opprimente peso: la moneta unica non trova spazio, la grappa si distilla liberamente in riva al fiume, e lungo le strade, in assenza di autovelox, i limiti di velocità non sono un imperativo ma un “per favore”.
Anche Schengen qui è ancora il nome di una speranza: i controlli alla frontiera sono minuziosi, ma la poliziotta ungherese parla un po’ di Italiano e ci strappiamo un sorriso a vicenda.
La valle del Tibisco è larga abbastanza per ospitare un confine (con l’ Ucraina) e paesi da entrambi i lati.
Sul versante romeno la strada segue con ostinazione il tracciato della ferrovia. Una strada ferrata ormai secondaria perché è costretta a fissare il capolinea sul fiume; non ci sono più collegamenti con il dirimpettaio ex sovietico: il confine sul ponte di Sighetu Marmaţiei è stato riaperto da pochi anni ma il traffico è solo automobilistico e pedonale. Per andare in treno a Kiev, il percorso da seguire è diverso, molto più tortuoso e prevede l’ attraversamento della Moldavia. Con la caratteristica rapidità dei treni dell’ Europa dell’ Est, ci vogliono 24 ore o poco più.
E però il capostazione della minuscola e derelitta stazione di Cămara Sighet, al confine della città ed al bordo dell’ Eurounione, è orgoglioso di annunciarmi che no, il treno non è soppresso “ce n’è uno alle 17,47”.
Ci capiamo a gesti e bocconi di parole; lui parla Romeno e Russo. La frontiera è appena oltre i binari e – vista la sua età – quello è stato il confine sovietico di buona parte della sua vita.
Il volto affilato si illumina in un sorriso che ne evidenzia gli occhi azzurro chiaro quando aggiunge la destinazione del prossimo treno: “București!”. Dimentica solo di aggiungere che per percorrere i seicento chilometri che ci sono tra qui e la capitale, il treno ci metterà dodici ore, alla velocità media di un qualsiasi scooter.
Alta Velocità, in Romania, è un concetto che si applica ancora solo agli automobilisti che ti sorpassano troppo vicino ad una curva.
Questa è una terra , di valli e montagne che preludono ad una nuova grande pianura, ed è sempre stata una zona dai confini liquidi, che ha spesso cambiato padrone: Ungheria, Polonia, Germania, Unione Sovietica, Romania.
Mi si presentano davanti scene che sembrano venire fuori direttamente dai miei ricordi d’ infanzia: per le strade circolano carretti trainati da cavalli e carichi di fieno, a bordo dei quali siede un’ intera famiglia oppure un’ anziana coppia incurante della pioggia. Le donne di una certa età vestono abiti neri ed hanno il capo coperto da un fazzoletto; le giovani no, vestono alla moda; ma sui carretti ci vanno tutti. Le automobili sono un privilegio dei ricchi.
Fine 1 di 6. La prossima puntata sarà pubblicata domenica 31 marzo
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Il bazaar di Bitola, ancora pieno di folla e fragranze, non
è magari ai primi posti della lista di cose da vedere in Europa.
Neanche Bitola, d’ altronde, lo è.
Antico crocevia commerciale, al centro degli scambi
economici tra Adriatico ed Egeo fin dai tempi in cui era attraversata dalla
romana via Egnatia, capolinea della ferrovia che la collegava al porto di
Salonicco, Bitola fu capoluogo dell’ Elayet di Rumeli, una delle regioni
ottomane comprendente territori che oggi appartengono alla Macedonia alla
Grecia e all’Albania.
Grazie alla sua posizione, la città divenne un centro
multiculturale. La chiamavano la città dei consoli perché ai tempi dell’ Impero
ottomano era sede di ben 20 consolati. Ed oggi gran parte degli edifici che li
ospitavano continuano a mostrarsi con le loro facciate ottocentesche o Art
Nouveau lungo la strada dello struscio della città, isola pedonale
fiancheggiata dai dehors dei bar e sempre affollata ad ogni ora e con qualsiasi
capriccio del meteo. Nei fine settimana caldi sembra che l’ intera popolazione
si sia data appuntamento lì. E che se la stia godendo un sacco.
E’ una strada dal nome che ispira reminiscenze di quel
Monopoli che occupava i nostri pomeriggi quando eravamo bambini. Si chiama
infatti Širok Sokak, che potremmo più o meno tradurre come Strada Larga.
Oggi questo angolo meridionale di Macedonia è periferia un
po’ triste dei Balcani, a pochi chilometri dalla frontiera con l’ Unione
Europea che corrisponde al confine con quella Grecia che fino a pochi mesi fa ancora
si rifiutava di riconoscere finanche il nome della nazione confinante.
Eppure Bitola è una città dolce nella sua atmosfera del fine
settimana. Il suo antico cosmopolitismo è evidente nelle chiese e moschee del
centro e negli edifici neoclassici allineati lungo la Širok Sokak.
La Topolino di Bouvier con la sua incongrua targa svizzera attraversò Bitola 65 anni fa, diretta verso l’ ineffabile Oriente che attendeva i suoi due passeggeri; dovette fare i conti con la frontiera ellenica chiusa e con doganieri diffidenti. Non è che le cose siano cambiate molto in più di mezzo secolo. La frontiera è aperta, ma i controlli sono stringenti e la diffidenza degli uomini in divisa non è mutata.
Loro d’ altronde la presero con la solita grande filosofia e resilienza:
“Accompagnato dal canto del motore e dallo scorrere del paesaggio, il fluire del viaggio vi penetra quasi, e vi schiarisce la mente. Idee che ospitavate senza ragione vi lasciano; altre invece s’adattano e si abituano a voi come le pietre nel letto d’un torrente. Nessun bisogno d’intervenire; la strada lavora per voi.”
La čaršija di Bitola, il suo bazaar, in pieno centro, incastonato
tra il fiume, un parco ed una moschea, non è stato sventrato per costruirvi
grattacieli, non è diventato un magnete per turisti, è ancora oggi conserva
ancora i tratti tipici di un mercato per la gente del luogo dove si va a fare
compere e dove di può trovare di tutto dai peperoni agli abiti da sposa.
Insomma quasi come in un centro commerciale. Ma che
differenza di fascino!
Al posto delle hamburgherie ci sono piccoli caffè con poche
sedie fuori e magari un alberello a fare ombra. Al posto dei pub, le fontane
pubbliche, ed i negozi sono bugigattoli ma fornitissimi.
Poi si gira l’ angolo e ci si ritrova nel mercato
alimentare, una foresta di bancarelle piena di colori, gente e profumi.
Peperoni, pomodori, frutta di ogni tipo, verdure di
stagione, funghi, pile coniche di paprika ed altre spezie.
C’ erano dei lamponi su una bancarella; per l’ equivalente
di 50 centesimi ne ho comprato un bicchiere di carta pieno pieno. Erano
buonissimi e dolcissimi.
C’è gente ma non c’è confusione.
Poco lontano, svetta il minareto della vecchia moschea
del bazaar, le case sono basse malconce ed
ognuno sembra impegnato a fare qualcosa, a parte chi beve caffè.
Ci sono sorrisi dappertutto, dalla vecchietta che mi vende
la paprica alla ragazza dalla quale acquisto i simit, le ciambelle di pane
ricoperte di semi di sesamo che sono un regalo della cucina turca.
L’ uomo del destino mi passa davanti la prima volta mentre
entro in una chiesa.
Un senzatetto dalla barba lunga, i suoi averi raccolti in un
malloppo che porta sulle spalle. I nostri sguardi si incrociano mentre io entro
e lui si siede sulla soglia.
Uno sguardo magnetico, il suo. Non c’è alcun motivo, ma mi
colpisce. Per un attimo.
Lo ritrovo quando sto per lasciare la città ed ho ancora nelle tasche un fascio di banconote macedoni. Non valgono molto più di qualche Euro, decido di regalargliele ed il suo sguardo si illumina, inizia a raccontarmi storie che ovviamente non capisco, ma dalla gestualità sembra che mi stia dicendo che era un artista, un cantante forse e che riceveva molti applausi per le sue esibizioni. Gli occhi magnetici si fanno sognanti per un istante e per dirla con Annemarie Schwarzenbach,
“non sta a me decidere di incontri e separazioni e tracciare il confine tra realtà e visione. A me rimane la magia, il nome, il cuore meravigliosamente toccato”.
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