Una forma evanescente, che sembra appena abbozzata.
I raggi del sole che cala la attraversano senza difficoltà.
Eppure è solida, solida come il ferro di cui è fatta.
E’ un fantasma ma non sembra minaccioso; è lì per custodire la chiesa che già si intravede.
Una chiesa della stessa materia del fantasma: tonnellate di ferro attraversate dalla luce radente del tramonto.
Si distinguono agevolmente le colonne, i capitelli, le capriate del tetto.
E si distingue perfettamente il cielo dietro.
Il fantasma mi lascia passare senza difficoltà e non c’è neanche bisogno di pagare un obolo.
No no siamo capitati in un nuovo Regno di Mezzo, ma a Siponto, provincia di Foggia, dove sulle rovine di una chiesa che fu romanica e poi medievale, l’ artista romano Edoardo Tresoldi ha installato una delle sue realizzazioni: 4 chilometri e mezzo di rete zincata elettrosaldata, per intenderci quelle che si usano per le recinzioni dei giardini. E con questa rete Tresoldi ha ricostruito secondo il linguaggio della trasparenza la chiesa originaria, quella romanica, che non c’è più.
Una costruzione solidamente leggera, apparentemente fragile e priva di consistenza ma in realtà massicciamente tridimensionale. E che ha un suo peso: 7 tonnellate di ferro che non scherma la luce.
Non contento, Tresoldi ha aggiunto delle figure antropomorfe realizzate con la stessa tecnica.
Forse sono fantasmi o viandanti o monaci, Chi lo sa.
Sono lì nell’ ombra, figure solidamente evanescenti ed osservano silenziose.
Un’ operazione moto metafisica, questa, che proietta il visitatore in uno spazio onirico e senza tempo e nel quale tuttavia “ciò che si vede, è”.
Ed è proprio l’ antitesi tra la solidità del ferro e l’ evanescenza delle figure e delle strutture a creare la magia del luogo.
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San Pietro Infine: un paesino in provincia di Caserta, incastonato tra Molise e Lazio, alle pendici del monte Sambucaro. La Storia, con tutte le sue atrocità, è passata proprio di qui.
Una storia relativamente recente: poco più di settant’ anni fa, nel pieno della Seconda Guerra Mondiale. San Pietro Infine fu completamente distrutta per “colpa” proprio della sua posizione.
Il paesino era divenuto uno dei capisaldi della linea Reinhard, avamposto difensivo tedesco pensato allo scopo di rallentare l’ avanzata Alleata proveniente dalla Sicilia e da Salerno, mentre si terminava di fortificare pesantemente la linea Gustav, pochi chilometri più a Nord, verso Cassino.
E per capire perché i tedeschi avessero scelto proprio San Pietro Infine per acquartierarsi e resistere, basta arrivare ai piedi delle attuali rovine, dopo aver lasciato in basso nella valle le nuove case costruite nel Dopoguerra: dalla piazza del vecchio paese lo sguardo spazia per chilometri in tutte le direzioni, sulla Casilina, nelle altre valli, su tutti gli angoli da dove la quinta Armata americana, provenendo da Sud Est, sarebbe prima o poi arrivata.
Ed un cannone ormai fuori uso puntato verso la valle rende perfettamente l’ idea.
Ma era appunto solo un’ idea.
La Quinta Armata arrivò nei pressi di San Pietro Infine nel dicembre del 1943.
Quindici giorni di bombardamenti da terra e dall’ aria fecero capire ai Tedeschi che non era cosa.
Ma non fu affatto facile, e la stessa durata della battaglia sta lì a testimoniarlo.
Le bombe ridussero in polvere il paese, con la popolazione – che aveva in gran parte rifiutato di allontanarsi – rintanata in grotte e costretta a sopravvivere in condizioni inumane, senza cibo, senza acqua, al buio, senza servizi igienici e con la paura addosso.
Gli Alleati avanzarono a fatica su un terreno aspro ed infido, tenuti sotto tiro dai nemici in alto. Oltre centocinquanta furono i loro morti (più duecentocinquanta dispersi e oltre mille feriti); incerto è il conto delle vittime tedesche. Tra i civili, invece, i morti furono centotrentacinque, su una popolazione di circa millecinquecento anime.
Inizialmente, gli Americani non erano per niente convinti che il documentario dovesse essere reso pubblico: troppo crudo e tropo imparziale nella documentazione dell’ alto costo della battaglia, dei problemi di intelligence e di coordinamento delle truppe, e delle difficoltà incontrate.
Furono necessari molti tagli e l’ intervento dell’ allora Segretario di Stato John Mashall (sì lo stesso del Piano Marshall) per permetterne la distribuzione.
Ma questa è storia.
Il presente è fatto di rovine e di un parco della memoria che ha aperto con grandi ambizioni; ma il giorno in cui sono andato a scattare le foto che vedete in questo articolo il museo era chiuso, il paese era assolutamente vuoto; l’ hotel “W. Churchill” aveva bene in mostra la sua insegna e le indicazioni per la reception, ma con una presenza di ospiti che sembrava essere prossima allo zero.
Niente visite guidate, dunque. In fondo è una fortuna, perché così ho avuto modo di assaporare il paese nel suo totale abbandono.
Lungo la strada acciottolata che sale ad anfiteatro verso il paese non ci sono più soldati e mezzi corazzati, solo silenzio e ronzio di insetti che mi accompagna anche mentre seguo quel che resta delle vecchie strade a gradoni.
Case sventrate dalle bombe ed invase dalle piante. Da ogni angolo sembra ancora possibile che spunti un fante col fucile. Certo l’ immaginazione vola in questo silenzio irreale, nel quale si sentono solo gli zoccoli di qualche pecora vagabonda.
Le rovine sono rimaste le stesse. E’ solo la vegetazione ad essere cresciuta, ad aver invaso un panorama che al termine della battaglia era solo macerie e fumo.
Attraverso l’ arco dove un tempo c’ era la taverna del paese e mi trovo davanti alle rovine di casa Compagnone, che all’ interno conserva ancora una pressa per il vino. E chissà, forse quel vino di strada ne faceva davvero poca, giusto quei metri che dividevano la casa dalla taverna.
Come tanti compaesani, i Compagnone sono emigrati, e dall’ America ricordano ancora le pietre del vecchio paese.
Il villaggio è dominato dalla mole della chiesa visibile praticamente da ogni punto dell’ (ex) abitato. Anch’ essa semidistrutta. Oggi è in restauro e non ho potuto vistarla, ma il suo profilo spedisce la mente verso scene di fede popolare. E di guerra.
In un angolo, le grotte, dove donne, vecchie e bambini trascorsero settimane tremende di paura e di morte, senza sapere cosa stesse succedendo nel mondo là fuori da dove provenivano i boati. Ci si può entrare, ed una volta dentro non si riesce a stare dritti.
Passeggiando lungo queste deserte strade acciottolate, non ho potuto evitare di pensare a coloro che proprio oggi stanno soffrendo ciò che i sanpietresi soffrirono settant’ anni fa. Penso alla Siria, all’ Ucraina Orientale, a ciò che successe nella ex Jugoslavia giusto pochi lustri fa.
Villaggi fantasma come San Pietro Infine sono sparsi in tutto il mondo, monumenti involontari all’ atrocità di ogni guerra.
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Lunghi, caldi, a volte noiosi giorni di estate e vacanza, quando il sole è a picco e neanche il tramonto porta un refolo di brezza.
Quando il tempo sembra sciogliersi come l’ asfalto sotto i piedi e la spiaggia è un microcosmo che riflette il mondo reale come uno specchio deformante.
Quando i ritmi sono dettati dall’ ombra più che dal sole, l’ attesa che la giostra smetta di girare è una pausa rinfrescante ed il volto arcigno di cartapesta del dinosauro è un profilo conosciuto che ti rassicura: sei in vacanza.
In questo mio ultimo progetto personale ho cercato di ritrarre i ritmi e le atmosfere di una vacanza italiana.
Ho usato per la prima volta un cellulare per le foto.
Eh si, sono un vegliardo e finora ho fotografato solo con la reflex
Era proprio il tempo giusto per provare qualcosa di nuovo.
La torre di guardia
Shopping time
Salvataggio
Ancora un giorno in spiaggia
Bandiera rossa
Pomeriggio di noia
Arrosticini
Giochi di bimbe
Per chiudere il giorno
Sera di piadine
L’ attesa
Vertigini
Il saluto del fossile vivente
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A quanto pare, per una volta la speculazione immobiliare a Berlino non ha vinto, e non assisteremo presto alla scomparsa di un altro pezzo della storia recente della capitale tedesca.
L’ aeroporto di Tempelhof resisterà; in un recente referendum i Berlinesi si sono schierati contro la proposta di destinare l’ area, che sorge proprio in centro e che dal 2009 è un parco, a nuove iniziative immobiliari. Non saranno costruiti né gli appartamenti, né la Biblioteca Nazionale, la nuova fermata della metropolitana, i negozi e la piscina che erano programmati.
Magari un referendum fosse riuscito a bloccare in tempo anche la distruzione fisica del Muro!
Tempelhof è uno dei più antichi aeroporti del mondo, ma è forse l’ unico che ha conservato praticamente intatta la sua struttura originale.
Doveva essere il nodo centrale dei collegamenti aerei civili del Terzo Reich, ma sotto il Nazismo non fu mai utilizzato come aeroporto civile: la sua costruzione terminò nel 1941, quando si era ormai già nel pieno della guerra; fu convertito in una struttura militare, nell’ edificio venne installata una fabbrica di aerei e le piste furono utilizzate sporadicamente per voli militari e soprattutto per il traffico aereo dei gerarchi.
Tempelhof ha visto la storia accumularsi tra i suoi hangar e le sue piste, dalle farneticazioni di dominazione hitleriane ai bombardamenti quando la seconda guerra mondiale era ormai persa, alle fasi più cruciali della guerra fredda, compreso quel ponte aereo che – tra il 1948 ed il 1949 – permise la sopravvivenza dell’ intera parte occidentale di Berlino quando i Russi bloccarono ogni accesso e rifornimento.
Tutti questi strati di storia sono perfettamente visibili quando si visita l’ immensa struttura. Sì, le visite sono possibili e vengono organizzate dall’ associazione che ha in gestione l’ area del vecchio scalo. Ci sono tours per tutti e quelli più specifici per i fotografi amanti dell’ urban decay.
L’ aeroporto, che è stato in uso fino al 2008, è gigantesco: l’ edificio principale era uno dei più grandi al mondo al momento della sua costruzione, nel 1936: un semiarco in granito lungo quasi un chilometro e mezzo, un tipico edificio nazista dalle linee squadrate e angoli taglienti, con porticati esterni ed un’ impressione generale di greve possanza. Monumentale è un aggettivo che gli si attaglia bene.
Nel progetto originale, la terrazza dell’ edificio avrebbe dovuto fungere da tribuna per le parate e gli show aeronautici. Una specie di stadio, in grado di ospitare un milione di persone! Oggi, una parte di quel progetto torna d’ attualità, perché si pensa di allestire una piazza sulla terrazza dell’ edificio. Un’ agorà di oltre un chilometro quadrato che dovrebbe essere pronta entro il 2016 e che sarà destinata ad iniziative artistiche e culturali. Tanto per capirci, la superficie di Piazza San Pietro è di circa un terzo di chilometro quadrato, quella di piazza Tienanmen di Pechino, che è forse la piazza più vasta del mondo è di circa mezzo chilometro quadrato!
Dopo la guerra, gli Americani che avevano il controllo di quel settore di Berlino installarono a Tempelhof una propria base aerea, che è rimasta attiva praticamente fino al 1993. Il traffico civile si sviluppò solo negli anni Cinquanta e si è interrotto cinquantanove anni dopo, con l’ unica eccezione dei due anni del Ponte Aereo. Le piste troppo corte permettere il traffico di aerei moderni a lungo raggio e la posizione troppo centrale ne hanno decretato la chiusura, che avrebbe dovuto coincidere con la chiusura anche degli altri aeroporti cittadini e l’ inaugurazione del nuovo megascalo che però, oggi, è ancora in costruzione, come ancora in attività sono Tegel e Schönefeld. Insomma a rimetterci è stato solo Tempelhof.
All’ arrivo all’ aeroporto, a salutarci c’è un’ enorme testa di aquila. Un tempo, l’ aquila aveva anche un corpo e stava appollaiata su una svastica, . Dopo la guerra, gli americani volevano portarsela in un museo della madrepatria, ma l’ intero oggetto era troppo grande e pesante e così il progetto fu abbandonato, il corpo e la svastica furono segati via e la testa dell’ aquila piazzata all’ ingresso dell’ aeroporto a salutare i viaggiatori in arrivo e partenza. Che ormai di viaggiatori non ce ne sono più, ma l’ aquila resta imperterrita lì…
Sulla sua sinistra c’è l’ ingresso di quello che un tempo era l’ albergo dell’ aeroporto, un affascinante rudere a semicerchio, con le stanze che si affacciano tutte lungo questa mezzaluna; al piano inferiore c’è il bar che conserva ancora gli adesivi di tutti gli squadroni e le linee aeree, e chissà che fantasmi di ricordi affastellati tra quei legni e quegli specchi.
All’ ammezzato una splendida sala da ballo ancora con il parquet ed i lampadari originali.
Poi si entra nell’ aeroporto vero e proprio e si viene accolti da una sala immensa, la quintessenza dell’ architettura nazista con inserti in alluminio anodizzato; doveva sembrare vuota anche negli anni di massimo traffico civile tanto che è vasta.
In opposizione a questo gigantismo, l’ area del duty free è minuscola: praticamente un pertugio nascosto, forse il più piccolo duty free del mondo.
Si esce poi sulla pista, sotto la tettoia metallica autoreggente che era uno dei vanti dell’ aeroporto negli anni Trenta del secolo scorso: era la prima volta che gli aerei potevano parcheggiare sotto una tettoia in grado di ospitarli, proteggendo così passeggeri ed operatori dalle inclemenze del tempo.
Sullo sfondo, le immense piste che oggi sono un parco amatissimo da skateboarder, aeromodellisti, amanti degli aquiloni e via dicendo. Ed in quale altra città del mondo lo trovate un parco così grande e così privo di alberi ed ostacoli?
Anche gli hangar dell’ aeroporto sono affascinanti: erano il deposito e l’ officina della base aerea americana che è stata di stanza a Tempelhof fino alla sua chiusura, e la loro appartenenza all’ USAF la trovate ben marchiata proprio sui portelloni d’ ingresso.
Anche dentro tutti i segnali di pericolo e le indicazioni sono in Inglese; gli spazi sono enormi, l’ atmosfera buia e rarefatta.
Ci si sposta quindi all’ interno dell’ edificio che ospitava gli uffici e per farlo si percorre un corridoio buio e tortuoso dove corrono ancora i binari della ferrovia interna. Un ambiente cupo e misterioso dal quale si sbuca per addentrarsi in un labirinto di stanze e saloni.
Qui un tempo i nazisti avevano progettato ci fosse la sala da ballo dell’ aeroporto. Stiamo parlando di un aeroporto che doveva avere una tribuna in grado di ospitare un milione di persone, e la sala da ballo poteva essere più piccola di un campo da basket?
No non poteva, solo che qui balli non ce ne furono mai; partite di pallacanestro invece sì! Il logo dei Berlin Braves campeggia ancora orgogliosamente sul linoleum del centrocampo, i canestri sono ancora lì e sembra quasi che esca ancora vapore ed odore di sudore dagli spogliatoi.
La visita termina negli scantinati del fabbricato che durante la guerra furono convertiti in rifugio antiaereo per i lavoratori della fabbrica che era stata installata nell’ aeroporto e per la gente che viveva nelle vicinanze.
Negli ultimi tempi della guerra, quando Berlino veniva costantemente bombardata, la gente passava qui dentro giorni e giorni, settimane. E tra di loro c’ erano naturalmente anche tanti bambini. Per alleviare il loro stress, per cercare di far dimenticare loro anche per un attimo il terrore degli scoppi, qualcuno pensò di decorare i muri di questo rifugio con dipinti nello stile di Wilhelm Bush, un popolare favolista dell’ epoca. Quei dipinti sono ancora lì, e lasciano un groppo in gola a pensare alla precoce perdita dell’ innocenza e del tempo del gioco di quelle vittime inconsapevoli ed incolpevoli della follia degli adulti.
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Notte buia, una delle più buie dell’ anno. E fredda. Ma dall’ oscurità sprizzano fuori dozzine di falò che rischiarano e riscaldano, ed attorno ad essi impazzano canti, balli e personaggi in maschera.
Si mangia e si beve come se non ci fosse un domani.
Siamo a Nusco, in Campania, provincia di Avellino, a quasi mille metri di altezza su un cocuzzolo circondato dai venti.
Di giorno da qui si gode una vista stupenda sulla valle dell’ Ofanto che inizia ad allargarsi e sulle montagne dell’ Appennino meridionale.
Ma adesso è notte, la notte di Sant’ Antonio Abate, colui che rubò il fuoco al diavolo per portarlo agli uomini, protettore degli animali domestici (maiale compreso); il santo che fa ritrovare le cose smarrite.
Davanti ad ogni chiesa, in ogni slargo e piazza del centro storico vengono ammassate cataste di legna: il 17 gennaio è la notte dei falò, o focaroni come si chiamano da queste parti.
Rito atavico, reminiscenza di antichi paganesimi che evocavano la luce in una delle notti più buie dell’ anno; rito di passaggio tra il buio dell’ inverno e la luce della primavera in arrivo, ed ideale accensione del Carnevale.
Negli anni passati, quando qui si viveva (chi ci viveva…) solo di agricoltura e pastorizia, questi erano i giorni in cui – mentre la campagna riposava sotto la neve – i contadini potevano osservare finalmente qualche giorno di riposo ed ozio mentre già si preparavano alle future semine che sarebbero avvenute col disgelo.
I fuochi rappresentano l’ acme di questo riposo forzato ma gradito, una fuga liberatoria ed effimera da una vita grama.
Il fuoco riscalda e scaccia le tenebre, rinforza la speranza che presto arriverà la primavera a spezzare questo freddo.
Fuochi liberatori come liberatorie sono le pantagrueliche mangiate e bevute che sono tradizione in questa notte.
Col passare degli anni la festa ha perso parte dei suoi caratteri arcaici e misteriosi, è divenuta tradizione che un po’ smonta il fascino; e poi è intervenuta la modernità, soprattutto sotto forma di mercificazione. Che non è poi neanche tanto da buttar via, considerato che ad ogni angolo di strada si vendono prelibatezze gastronomiche casarecce ormai scomparse dalle tavole di città.
A farla da padrone è il maiale, appena macellato e già pronto da gustare in mille diverse ricette, dalle salsicce ai cicoli.
Ma non sottovalutate il gusto del caciocavallo impiccato: una forma di caciocavallo viene appesa ad una corda che la fa penzolare a pochi centimetri dalle braci.
Il calore scioglie il formaggio che viene poi spalmato su pezzi di pane e mangiato così o condito con un po’ di olio al tartufo.
Se a leggere vi è venuta l’ acquolina, sappiate che in realtà è molto più buono!
Il clou è naturalmente di notte, ma è l’ intera giornata ad avere un’ atmosfera speciale, con la preparazione delle cataste di legna e l’ attesa festante.
I falò più grandi sono sempre davanti alla chiesa parrocchiale e davanti al municipio, ma esiste una tradizione di competizione tra tutti i paesani a chi realizza il falò “privato” più grande e bello, e a chi imbandisce attorno ad esso le tavole più golose; ci sono cataste di legna nei cortili davanti alle case ed in ogni piazzetta del paese.
E tutt’ attorno gira vino, si impastano laine (una pasta fresca simile alle tagliatelle ma un po’ più corte e spesse circa 3 cm) e si attende il gran momento in cui il fuoco scaccerà via il freddo ed il buio.
Qui, nei vicoli, lontano dalla folla, c’è più genuinità e meno commercio, e non è raro essere invitati per un bicchiere di vino o per qualcosa di più sostanzioso.
Mentre la sera cala l’ eccitazione monta: si attendono i fuochi d’ artificio che avvisano che il primo falò è stato acceso in modo che possano dare avvio al loro personale rito.
Poi, a notte fonda, sarà il momento delle mascherate e della folla di turisti venuti da fuori per mangiare e riscaldarsi davanti agli ultimi fuochi.
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E’ da tempo che credo di aver sfiorato il segreto dei barbieri; personaggi strambi, amanti delle parole, spesso innamorati del (loro) passato e restii ad accogliere i cambiamenti. Conosco barbieri in provincia che hanno ancora in negozio la poltrona a cavalluccio per poter meglio lavorare con i bambini. La seduta è rigorosamente di cuoio rosso, naturalmente.
Andrea Semplici, che è un maestro, a Muro Leccese ha scovato il barbiere che vende giornali. Io sono andato un pelino più in là, più in profondità nell’ amabile lunaticità di questi signori; io ho scovato il “Barbiere Fotografo”. Si, sta scritto proprio così sull’ insegna della sua bottega. In vetrina non ci sono mica forbici e spazzole, no no. Ci sono un paio di Rollei biottica, una Zenit, un vecchio flash a bulbo ed altri oggetti vintage.
Dentro c’è Franco, il barbiere di Acciaroli, paesino cilentano di mare e pescatori, con il suo camice da lavoro che non è come al solito bianco ma giallo con bordini blu. E ci sono – cullati dal ronzio dell’ aria condizionata – i clienti. Da sbarbare. O da fotografare. Tutti lì ordinatamente in fila.
Sessantadue anni, fisico asciutto ed un’ eleganza naturale, Franco taglia i capelli dei pescatori di Acciaroli da quasi mezzo secolo, e ancora non si è stancato. Annoiasi certo che no, con tutti gli interessi che si ritrova.
Il negozio è in centro, tra la farmacia ed il fruttivendolo, e offre ancora altre sorprese. Sì, non ci sono solo lamette, spazzole, macchine fotografiche e stampanti. C’è anche una fisarmonica, una chitarra, un clarinetto. Eh sì, perchè Franco, a tempo perso, fa anche il musicista e lo fa bene, anzi è stata la prima cosa che ha imparato a fare; oggi suona nella banda di San Mauro Cilento e vanta un passato in un gruppo folk.
Il barbiere-musicista-fotografo un tempo approfittava della chiusura domenicale per dedicarsi alle fotografie di matrimonio, ma da qualche tempo ha abbandonato le cerimonie: “ Ci voleva troppo tempo e troppi soldi da anticipare;e alla fine il guadagno non era mica tanto” racconta mentre aggiusta la sfumatura del ragazzo che è di turno prima di me. Io sono quasi pronto a sedermi a mia volta su quella bella sedia che sa di antico e a farmi maneggiare la faccia (sono qui per una rasatura) quando entra un tipo. Ha i capelli corti e non ha barba, ed allora cosa vuole? Franco lo sa già, ed infatti lo invita ad aspettare un attimo, poi quando il ragazzo si alza, si rivolge al nuovo entrato e gli dice di prepararsi. In un angolo del negozio c’è uno sgabello ed un fondale bianco. Serve per le fototessera.
Un paio di scatti, poi ci si trasferisce al computer, la foto viene rapidamente preparata e stampata in quattro esemplari. Finalmente è il mio turno; oddio era già il mio turno, ma evidentemente qui i clienti del fotografo hanno la precedenza sui clienti del barbiere.
Mentre mi siedo Franco – che ha già adocchiato la mia Pentax – si informa e chiede dei miei obiettivi, si dimostra particolarmente interessato all’ 8-16, poi finalmente prende gli attrezzi del suo primo (secondo?) mestiere ed inizia ad insaponarmi il viso. Ma si vede che ha voglia di raccontare.
Figlio di contadini, cronologicamente diventa per prima cosa un musicista: fisarmonicista autodidatta sin dai tempi della scuola elementare, amava suonare seduto da qualche parte mentre il padre lavorava i campi; prese anche parte al saggio della scuola, ma poi lo strumento si ruppe e soldi per aggiustarlo non ce n’ erano. E così imparò a suonare la chitarra.
Il mestiere di barbiere lo ha imparato sotto le armi, in Marina. E non credeva che sarebbe stato il suo futuro. Già allora lui con le mani era bravo, ma non solo ad adoperare pettine e spazzola: riparava oggetti di legno, eseguiva lavoretti. Ed aveva una passione: l’ elettrotecnica. Terminato il servizio militare, un giorno fu attratto da una pubblicità della Scuola Radio Elettra (chi ha almeno cinquant’ anni se la ricorderà di sicuro!). Era la sua occasione: diventare elettrotecnico per corrispondenza!
“Ma il corso costava settantacinquemila lire di allora, ed io ne avevo solo trentacinquemila. Mica potevo chiedere soldi a mio padre che ogni mattina usciva a zappare”.
E così il ripiego fu il meno costoso corso di fotografia. Era nato il barbiere fotografo.
“L’ elettrotecnica però mi era rimasta nella testa e così in seguito ho studiato qualcosa da solo, ho iniziato a fare esperimenti a costruirmi le prime radio.”
Erano le radio con i valvoloni, che se sbagliavi a maneggiarli prendevi una scossa di quelle mica male, e Franco ne ha prese non poche. Ma la passione per quel tipo di artigianato moderno era forte: non esistevano ancora i computer, le televisioni erano in bianco e nero ed erano aggeggi con il tubo catodico e le valvole che per sistemarle in casa dovevi rinforzare il solaio, tanto pesavano. Le radio erano lo strumento di contatto con il mondo.
Così tra una radio costruita e qualche taglio di capelli in paese, passavano gli anni, la famiglia di Franco cresceva e si ingrandiva (adesso è un nonno felice, le foto del nipotino sono anche in negozio ed indovinate chi le ha scattate?); un giorno un cliente affezionato gli regalò un clarinetto usato.
“E che me ne faccio, fu il mio primo pensiero. Imparo a suonarlo! Fu il secondo, immediatamente dopo”.
L’ orecchio era allenato e non ci volle poi molto tempo. Oggi Franco suona il clarinetto nella banda di San Mauro Cilento e di tanto in tanto è costretto a sdoppiarsi: suona, poi fa mettere in posa la banda e corre a fotografarla, poi torna al suo clarinetto.
Ma quante cose sa fare ‘sto Franco? Non è mica finita qui, perché lui, figlio di contadini, è rimasto contadino e coltiva il suo pezzo di terra: vigne, patate, peperoni, cipolle, zucchini, fagioli. E da giovane ha servito per la Marina Militare quindi qualcosa di navigazione dovrà anche capirne in questo paese di pescatori (ma lui è di Pioppi, poco lontano, uguali radici marinare). Ed ancora, aggiusta elettrodomestici, fa piccoli lavoretti di carpenteria.
Glielo chiedo e lui sorride, mentre mi toglie via gli ultimi batuffoli di schiuma. Poi, mentre pago e ritiro regolarissima ricevuta fiscale, mi fa:”Così non mi annoio”!