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Verso Mocăniţa – 2 LA MEMORIA

Pubblicato da Photos On The Road in 31/03/2019
Pubblicato in: Fotografie, Memoria, Racconti di viaggio, Romania, Viaggi. Tag: Café Elefant, Maramures, Olocausto, Romania, Viseu de Sus. Lascia un commento
Questa è la seconda puntata del mio viaggio nel Maramures, nel Nord della Romania.
La prima puntata è qui.

Viseu de Sus
Caffè Elefant
Credits: http://viaggidivaleria.blogspot.com/2013/08/la-casa-di-alexander-elephant-viseu-de.html
Crediti: http://viaggidivaleria.blogspot.com/2013/08/la-casa-di-alexander-elephant-viseu-de.html

Dopo due giorni di viaggio e 600 chilometri di strada, finalmente una birra al piccolo bar della stazione Mocăniţa di Viseu de Sus.

Si chiama Elefant, una discordanza assoluta.

Da queste parti avrei capito se si fosse chiamato Bar dell’ Orso. Ma gli elefanti in Romania?

Alexander Elefant possedeva una segheria a Viseu de Sus ed è stato l’ ultimo Ebreo a vivere da libero nel paese. O, se preferite, l’ ultimo adessere deportato,

Siamo ai bordi della Galizia, un tempo melting pot di razze e culture, luogo dove convivevano (non sempre pacificamente) Tedeschi, Polacchi, Ruteni, Lituani ed Ebrei.

Tutto fu spazzato via dai Nazisti, soprattutto gli Ebrei.

Viseu de Sus ha l’ aspetto di un ordinato paesino. La carrozzabile lo attraversa in lunghezza ed ai suoi bordi la maggior parte delle abitazioni ha un piccolo giardino; poi c’è la piazza, il municipio, il supermercato e le chiese. Cattolica ed ortodossa.
E’ tutto relativamente nuovo, in cemento armato o in mattoni.

Settant’ anni fa Viseu era un tipico shtetl centroeuropeo, con le case di legno e le strade in terra battuta. I suoi circa quindicimila abitanti erano per un quarto ebrei, per un altro quarto romeni e per il resto tedeschi, ungheresi, ruteni (gli attuali ucraini). C’ erano 14 sinagoghe ed una scuola religiosa ebraica.

Oggi gli abitanti sono sempre quindicimila, ma non c’è più nessun Israelita. La differenza l’ ha fatta tutta una sola notte del 1944, quando gli Ebrei del circondario furono caricati sui treni e spediti ad Auschwitz.
Ne sopravvissero poche centinaia, che preferirono non far mai più ritorno a Viseu ed emigrare altrove. Uno solo, Pastor Friedmann Mendel, scerlse di tornare e visse fino al 1998 in un paese che non era più il suo e dove non poteva più neanche pregare dato che le sinagoghe sopravvissute alla distruzione nazista furono man mano abbattute. L’ ultima nel 1977. Le è sopravvissuto il cimitero.

Il piccolo caffè Elefant, è ospitato nell’ ultima casa in legno tipica degli shtetl ancora esistente in paese, unica scampata alle devastazioni della guerra. Originariamente sorgeva sull’ altra sponda del fiume; è stata, smontata e ricostruita qui, pezzo per pezzo, con amorevole cura, per ospitare oltre al caffè, un commovente micro museo della storia degli Ebrei del posto.

Al caffè-museo Elefant sono state ricostruite le modeste condizioni di vita del tempo: il principale pezzo di arredamento è un tavolo in legno con qualche sedia. Ai muri, tabelloni informativi in Romeno, Tedesco ed Ebraico e fotografie dell’ epoca, che fanno rivivere la vita dello shtetl: bambini sorridenti, rabbini ieratici ed un sottofondo di povertà vissuta con dignità.
Sul tavolo c’è il registro degli ospiti ed un po’ di documentazione cartacea.

Crediti: http://www.viseudesus.ro/turism/arhitectura/casa-muzeu-elefant

In un’altra stanzetta c’è anche una biblioteca, con vecchi libri ebraici.

La Galizia era terra di uomini e libri, raccontava Celan, che era nato a poche centinaia di chilometri da Viseu, a Cernăuți.
Cernăuți oggi è in Ucraina e si chiama Černivci, a conferma di quanto lioquidi siano i confini in questo fazzoletto di terra..

Uomini e libri. Ma sono stati soprattutto questi ultimi a salvarsi dalla barbarie. Neanche in tanti, ma comunque più di uomini e donne.

Quelli della biblioteca del museo chissà come sono sopravvissuti ai pogrom.

Forse per lo stesso straordinario caso che salvò i libri di Imre Toth, il filosofo e storico della matematica (anche’ egli ebreo), nato a pochi chilometri da qui e sopravvissuto agli orrori della guerra solo perché nel frattempo era stato incarcerato per motivi politici e riuscì a mescolarsi con i delinquenti comuni, sfuggendo alla deportazione.
Si racconta, dunque, che quando la sua famiglia fu deportata, il padre, abbandonando la casa, che non doveva essere granché diversa da questa dove è ospitato il museo Elefant, lasciò sul tavolo una lettera indirizzata “al Vincitore” che diceva più o meno: “La prego, io sono vecchio, ho 56 anni… ciò che ho messo insieme nella mia vita, questi libri, appartengono a mio figlio. Prego di non toccarli. Quando i Romani hanno occupato Siracusa hanno trovato il vecchio Archimede che disegnava cerchi sulla sabbia. E questi ha detto al soldato che stava per ucciderlo di non toccare i suoi cerchi.”.
Sembra incredibile, ma quando Toth tornò a casa dopo la guerra la trovò completamente devastata; ma i suoi libri erano ancora tutti lì.

Sono in pochi a conoscere l’ esistenza di questo toccante museo; in tanti vanno a visitare il memoriale delle vittime del comunismo e della resistenza nella vicina Sighetu Marmației, e si dimenticano di altri orrori. E forse è una rimozione di memoria preordinata, non casuale. I più giovani già ignorano quello che è successo fino al 1944 nella loro città natale. Invece sanno perfettamente quello che combinarono gli uomini di Ceaușescu.

Fine 2 di 6.
La prossima puntata sarà pubblicata domenica 14 aprile
La puntata precedente è qui.

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Verso Mocăniţa – 1 IL VIAGGIO

Pubblicato da Photos On The Road in 17/03/2019
Pubblicato in: Fotografie, Racconti di viaggio, Romania, Ungheria, Viaggi. Tag: ferrovia, Maramures, mocanita, puszta. Lascia un commento
Inizia oggi il racconto di un viaggio nel Maramures, nel Nord della Romania, ai confini con l’ Ucraina.  

Sono partito con l’ idea di percorrere per intero la Mocăniţa, l’ ultima linea ferroviaria forestale ancora funzionante, con locomotive a vapore e scartamento ridotto dei binari.

Il viaggio per raggiungere la ferrovia è stato però interessante quanto il tragitto lungo la Mocăniţa.

Ve lo narro a partire da oggi, accompagnando il racconto con le mie fotografie.
Maramures Panorama

Piove, piove, piove.

Solo grigio e nuvole basse sul verde costante di questa pianura. Infinita come la pioggia che viene giù.
E sotto questa pioggia gli Ungheresi imperterriti vanno in bicicletta.

Non è il miglior modo di iniziare il viaggio e mentalmente mi maledico per aver scelto di cambiare il mio itinerario e volare a Budapest.

Ho solo seguito un consiglio: la strada più breve per il Maramures parte dalla capitale dell’ Ungheria, mi hanno detto. Dimentica Bucarest. Troppe montagne in mezzo, e strade improbabili.

E così mi sono ritrovato nella puszta bagnata a puntare verso il nord rurale della Romania.
Qui – nascosta in un angolo della valle di un fiume che viene giù dalle montagne che segnano il confine con l’ Ucraina – sbuffa ancora Mocànita, l’ ultima ferrovia a vapore commerciale funzionante in Europa.

L’ orizzonte è piatto, tutto è basso, le case sono basse, anche il cielo è basso.
Gli spazi invece sono immensi, l’occhio quasi non trova ostacoli che non siano le nuvole. Penso a lunghe passeggiate in questo verde tra animali ed uccelli, anche se le cicogne sono già volate via.

Per andare dove sto andando io, non ci sono guide turistiche. Alla Feltrinelli non ne hanno. Ed anche a cercare su Internet “Maramures” o “Mocăniţa” non è che si trovi molto, giusto qualche sito istituzionale.

Ma in questa epoca di tecnologia, il navigatore GPS mi conforta con la notizia che ci vorranno ancora quattrocento chilometri di rettilineo prima di raggiungere le alture che annunciano i Carpazi.

Per ore il viaggio è solo noia; poi le prime curve e si entra in questa strana terra che è ancora un po’ Kakania ed un po’ Unione Sovietica; antichi edifici imperial-regi in rovina e casermoni brutalisti che non se la passano meglio. Chiese ortodosse. Città con un chiaro stampo austroungarico ma prive di una precisa identità culturale.

Questa è un’ estremità recondita dell’ impero eurounito, che qui fa sentire poco il suo opprimente peso: la moneta unica non trova spazio, la grappa si distilla liberamente in riva al fiume, e lungo le strade, in assenza di autovelox, i limiti di velocità non sono un imperativo ma un “per favore”.
Anche Schengen qui è ancora il nome di una speranza: i controlli alla frontiera sono minuziosi, ma la poliziotta ungherese parla un po’ di Italiano e ci strappiamo un sorriso a vicenda.

La valle del Tibisco è larga abbastanza per ospitare un confine (con l’ Ucraina) e paesi da entrambi i lati.

Ferrovia per Bucharest, Maramures

Sul versante romeno la strada segue con ostinazione il tracciato della ferrovia. Una strada ferrata ormai secondaria perché è costretta a fissare il capolinea sul fiume; non ci sono più collegamenti con il dirimpettaio ex sovietico: il confine sul ponte di Sighetu Marmaţiei è stato riaperto da pochi anni ma il traffico è solo automobilistico e pedonale. Per andare in treno a Kiev, il percorso da seguire è diverso, molto più tortuoso e prevede l’ attraversamento della Moldavia. Con la caratteristica rapidità dei treni dell’ Europa dell’ Est, ci vogliono 24 ore o poco più.

Stazione di Cămara Sighet Maramures Romania

E però il capostazione della minuscola e derelitta stazione di Cămara Sighet, al confine della città ed al bordo dell’ Eurounione, è orgoglioso di annunciarmi che no, il treno non è soppresso “ce n’è uno alle 17,47”.
Ci capiamo a gesti e bocconi di parole; lui parla Romeno e Russo. La frontiera è appena oltre i binari e – vista la sua età – quello è stato il confine sovietico di buona parte della sua vita.
Il volto affilato si illumina in un sorriso che ne evidenzia gli occhi azzurro chiaro quando aggiunge la destinazione del prossimo treno: “București!”. Dimentica solo di aggiungere che per percorrere i seicento chilometri che ci sono tra qui e la capitale, il treno ci metterà dodici ore, alla velocità media di un qualsiasi scooter.
Alta Velocità, in Romania, è un concetto che si applica ancora solo agli automobilisti che ti sorpassano troppo vicino ad una curva.

Carretto a cavalli Maramures Romania

Questa è una terra , di valli e montagne che preludono ad una nuova grande pianura, ed è sempre stata una zona dai confini liquidi, che ha spesso cambiato padrone: Ungheria, Polonia, Germania, Unione Sovietica, Romania.

Mi si presentano davanti scene che sembrano venire fuori direttamente dai miei ricordi d’ infanzia: per le strade circolano carretti trainati da cavalli e carichi di fieno, a bordo dei quali siede un’ intera famiglia oppure un’ anziana coppia incurante della pioggia. Le donne di una certa età vestono abiti neri ed hanno il capo coperto da un fazzoletto; le giovani no, vestono alla moda; ma sui carretti ci vanno tutti. Le automobili sono un privilegio dei ricchi.

Trasporto in Maramures Romania
Fine 1 di 6.
La prossima puntata sarà pubblicata domenica 31 marzo
Carri a cavalli Maramures Romania

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Le seduzioni di Bitola

Pubblicato da Photos On The Road in 10/02/2019
Pubblicato in: Fotografie, Macedonia (FYROM), Racconti di viaggio, Viaggi. Tag: Bazaar, Bitola, FYROM, Macedonia, čaršija. Lascia un commento
Bitola old town

Il bazaar di Bitola, ancora pieno di folla e fragranze, non è magari ai primi posti della lista di cose da vedere in Europa.

Neanche Bitola, d’ altronde, lo è.

Antico crocevia commerciale, al centro degli scambi economici tra Adriatico ed Egeo fin dai tempi in cui era attraversata dalla romana via Egnatia, capolinea della ferrovia che la collegava al porto di Salonicco, Bitola fu capoluogo dell’ Elayet di Rumeli, una delle regioni ottomane comprendente territori che oggi appartengono alla Macedonia alla Grecia e all’Albania.

Bitola
In un baro lungo Širok Sokak

Grazie alla sua posizione, la città divenne un centro multiculturale. La chiamavano la città dei consoli perché ai tempi dell’ Impero ottomano era sede di ben 20 consolati. Ed oggi gran parte degli edifici che li ospitavano continuano a mostrarsi con le loro facciate ottocentesche o Art Nouveau lungo la strada dello struscio della città, isola pedonale fiancheggiata dai dehors dei bar e sempre affollata ad ogni ora e con qualsiasi capriccio del meteo. Nei fine settimana caldi sembra che l’ intera popolazione si sia data appuntamento lì. E che se la stia godendo un sacco.

E’ una strada dal nome che ispira reminiscenze di quel Monopoli che occupava i nostri pomeriggi quando eravamo bambini. Si chiama infatti Širok Sokak, che potremmo più o meno tradurre come Strada Larga.

Oggi questo angolo meridionale di Macedonia è periferia un po’ triste dei Balcani, a pochi chilometri dalla frontiera con l’ Unione Europea che corrisponde al confine con quella Grecia che fino a pochi mesi fa ancora si rifiutava di riconoscere finanche il nome della nazione confinante.

Eppure Bitola è una città dolce nella sua atmosfera del fine settimana. Il suo antico cosmopolitismo è evidente nelle chiese e moschee del centro e negli edifici neoclassici allineati lungo la Širok Sokak.

Neo classical building in Bitola

La Topolino di Bouvier con la sua incongrua targa svizzera attraversò Bitola 65 anni fa, diretta verso l’ ineffabile Oriente che attendeva i suoi due passeggeri; dovette fare i conti con la frontiera ellenica chiusa e con doganieri diffidenti. Non è che le cose siano cambiate molto in più di mezzo secolo. La frontiera è aperta, ma i controlli sono stringenti e la diffidenza degli uomini in divisa non è mutata.

Loro d’ altronde la presero con la solita grande filosofia e resilienza:


“Accompagnato dal canto del motore e dallo scorrere del paesaggio, il fluire del viaggio vi penetra quasi, e vi schiarisce la mente. Idee che ospitavate senza ragione vi lasciano; altre invece s’adattano e si abituano a voi come le pietre nel letto d’un torrente. Nessun bisogno d’intervenire; la strada lavora per voi.”
Mosque of the Bitola bazaar

La čaršija di Bitola, il suo bazaar, in pieno centro, incastonato tra il fiume, un parco ed una moschea, non è stato sventrato per costruirvi grattacieli, non è diventato un magnete per turisti, è ancora oggi conserva ancora i tratti tipici di un mercato per la gente del luogo dove si va a fare compere e dove di può trovare di tutto dai peperoni agli abiti da sposa.

Insomma quasi come in un centro commerciale. Ma che differenza di fascino!

Al posto delle hamburgherie ci sono piccoli caffè con poche sedie fuori e magari un alberello a fare ombra. Al posto dei pub, le fontane pubbliche, ed i negozi sono bugigattoli ma fornitissimi.

Bitola bazaar

Poi si gira l’ angolo e ci si ritrova nel mercato alimentare, una foresta di bancarelle piena di colori, gente e profumi.

Peperoni, pomodori, frutta di ogni tipo, verdure di stagione, funghi, pile coniche di paprika ed altre spezie.

Bitola food market at the bazaar
Bitola food market at the bazaar

C’ erano dei lamponi su una bancarella; per l’ equivalente di 50 centesimi ne ho comprato un bicchiere di carta pieno pieno. Erano buonissimi e dolcissimi.

C’è gente ma non c’è confusione. Poco lontano, svetta il minareto della vecchia moschea del bazaar, le case sono basse  malconce ed ognuno sembra impegnato a fare qualcosa, a parte chi beve caffè.

Selling paprika at Bitola bazaar

Ci sono sorrisi dappertutto, dalla vecchietta che mi vende la paprica alla ragazza dalla quale acquisto i simit, le ciambelle di pane ricoperte di semi di sesamo che sono un regalo della cucina turca.

Selling simit in Bitola

L’ uomo del destino mi passa davanti la prima volta mentre entro in una chiesa.

Un senzatetto dalla barba lunga, i suoi averi raccolti in un malloppo che porta sulle spalle. I nostri sguardi si incrociano mentre io entro e lui si siede sulla soglia.

Uno sguardo magnetico, il suo. Non c’è alcun motivo, ma mi colpisce. Per un attimo.

Lo ritrovo quando sto per lasciare la città ed ho ancora nelle tasche un fascio di banconote macedoni. Non valgono molto più di qualche Euro, decido di regalargliele ed il suo sguardo si illumina, inizia a raccontarmi storie che ovviamente non capisco, ma dalla gestualità sembra che mi stia dicendo che era un artista, un cantante forse e che riceveva molti applausi per le sue esibizioni. Gli occhi magnetici si fanno sognanti per un istante e per dirla con Annemarie Schwarzenbach,


“non sta a me decidere di incontri e separazioni e tracciare il confine tra realtà e visione.  A me rimane la magia, il nome, il cuore meravigliosamente toccato”.

Mendicante di Bitola

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Korčula, profumo di Venezia sull’ altra sponda dell’ Adriatico

Pubblicato da Photos On The Road in 20/01/2019
Pubblicato in: Croazia, Fotografie, Racconti di viaggio, Viaggi. Tag: Croazia, Curzola, Korcula. Lascia un commento

Se è vera la leggenda che si narra qui, il paese natale di Marco Polo è annidato sul mare.

E se anche la leggenda fosse falsa, se Marco Polo fosse nato a Venezia, davanti a lui avrebbe avuto comunque mare, lo stesso mare.

E forse non poteva essere diversamente per un uomo che ha fatto del viaggio la sua vita.  

Il mare è un invito alla partenza: la sua superficie piatta ed immobile nei giorni d’ estate ti fa pensare che si tutto facile. Basta salire su una barca ed avviarsi. Dall’ altra parte ci sarà comunque una nuova terra.

Questa è la sua casa, ti dicono. Da questo porto salpò per Venezia, ti dicono. E te lo dicono in Croato, perché Korčula (Curzola in Italiano) che forse diede i natali a Marco Polo è in Dalmazia, anche se di Croato ha solo le insegne dei locali e le bandiere che garriscono ad ogni angolo;  per il resto è – come tante altre città lungo la costa adriatica orientale –  una reminiscenza di Venezia: calli,  campi, pozzi ornati, la pietra lavorata dei palazzi e delle chiese.

Marco Polo forse non è nato qui, ma nacque a  Korčula chi fece splendida la basilica di San Marco e da qui proveniva la pietra adoperata per costruirla: la prospettiva un poco cambia, perché – lo si voglia o meno – i grandi stati e gli imperi sono sempre stati sovranazionali.

Oggi Korčula è meta di turismo e la sua città vecchia è di dimensioni lillipuziane: le sue calli, che a spina di pesce si diramano dal vicolo principale e dalla piazza, sono così strette  e corte che a confronto quellle veneziane sembrano quasi boulevards.

Anche a Korčula c’è una chiesa di San Marco. Tutto qui è in scala. I fregi diminuiscono, invece di una quadriga ci sono due leoni e la piazza che la ospita non ha la maestosità di quella veneziana ma è tuttavia adorabile, circondata dai bei palazzi in pietra, illuminata dalla luce radente del tramonto. Lì, in un angolo c’è la casa che forse diede i natali a Marco Polo.

Se volete godervela senza ressa dovete venire a  Korčula fuori stagione, o assoggettarvi ad un’ alzataccia e girarvela in quelle ore che vanno da prima che il sole sorga a prima che aprano i bar ed inizino le consegne del mattino. Così la vivrete senza gente ed in una luce che esalta la matericità della pietra lavorata e potrete liberamente passeggiare e scoprire improvvisi squarci sul mare luccicante, torri panoramiche, pacifici  chiostri e colonnati

La città vecchia è talmente piccola che correrete costantemente il rischio di ritrovarvi verso le mura che la delimitano, separandola dal mare. E prima o poi attraverserete in senso opposto la bella porta dalla quale siete entrati e vi ritroverete nella città nuova: una costellazione di alberghi tre stelle dove capita che si ritrovino nello stesso parcheggio e vicini di tavolo a colazione Croati, Serbi, Sloveni e Bosniaci, che venti anni fa si massacravano a vicenda non lontano da qui.

Se invece quelle le strette calli impattano sulla vostra claustrofobia, la potrete combattere con i grandi spazi dell’isola, pervasa da una languida bellezza mediterranea: ulivi, pini e viti si contendono le superfici non rocciose e poi cespugli di mirto ed altre piante odorose.

I vigneti si stendono fin quasi sulla riva del mare, ed il vino di Korčula ha una sua non immeritata fama.

Le coste sono in generale frastagliate, prive di grandi spiagge sabbiose, ma custodiscono angoli in cui gli amanti del mare potranno ritrovarsi.

Le strade sono poche, le auto anche, per quanto in alta stagione. Qualche curva custodisce improvvisi lampi di paesaggi verdi e azzurri. Rispettando i limiti di velocità non ci vuole più di un’ ora a raggiungere l’ altra estremità dell’ isola, ed il paese di Vela Luka, dove approdano i grossi traghetti provenienti da Spalato. Una chiesa in pietra bianca, come di pietra è il palazzo comunale.

Qui la vista può spaziare verso il mare aperto, mentre a poche centinaia di metri dal paese, una piccola baia a forma di conchiglia e protetta da due isolotti ha il profumo di sognanti avventure tropicali.

Forse era qui che Marco Polo bambino sognava i suoi viaggi.

O forse è tutto solo una leggenda (come sostengono i veneziani) ma da qui è bello crederci.

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Eger: bella e (quasi) sconosciuta

Pubblicato da Photos On The Road in 14/12/2018
Pubblicato in: Fotografie, Proposte di viaggio, Ungheria. Tag: Eger, Egri Bikaver, Ungheria, Vendemmia, Viaggi. 1 Commento
Eger Fontana di Dobo Istvan Ter

Eger, Ungheria del nord.

La fontana è di quelle moderne, senza bordi; si può passeggiare tra i getti se non si ha paura di bagnarsi o se si è bravi ad attendere il  momento giusto in cui tutto si ferma.

Eger Fontana moderna di Dobo Istvan Ter

All’ alba  di questo secolo ancora non c’era, ma la facciata barocca della chiesa dei Minoriti sullo sfondo, quella si che c’ era.

Questa è una città ove il tempo scorre piano. Non ci credete?  Guardate queste due foto.

Centro storico di Eger Ungheria

 

Centro storico di Eger Ungheria

Ed ora ditemi, qual è stata scattata lo scorso anno e quale nel ventesimo secolo?

Non è facile lo so, ma se siete curiosi, la risposta la trovate a fondo pagina.

Notte tranquilla e senza luna dopo i temporali di settembre, un odore di tempo che non è passato invano su questa città costruita proprio dove finisce la grande pianura. O dove iniziano le montagne. Dipende da dove si arriva. E questi punti di vista diversi sono stati parte integrante della storia di Eger, perché il limite tra la grande pianura ed i rilievi è stato spesso un confine, da difendere o conquistare.

Di qui sono passati i nomadi turchi che abbiamo chiamato Unni, e tre secoli dopo le truppe ottomane con il loro carico di storia, cultura e tradizione.

Per tutti, Eger era lo sbocco verso i verdi pascoli della pianura magiara.

Tramonto nella puszta

L’ assedio di Eger è una famosa pagina di storia ungherese: nel 1552, per un mese, duemila soldati ungheresi comandati da István Dobó, resistettero all’ assedio di un esercito di centomila uomini turchi. Alla fine gli aspiranti invasori tolsero l’ assedio, ma tornarono 44 anni più tardi e stavolta non fallirono l’ impresa.

Il castello che fu teatro della tenace resistenza ungherese è ancora lì, su una collina da dove si gode un bel panorama della città.

Panorama di Eger dal castello

I Turchi rimasero ad Eger per quasi un secolo, ed hanno lasciato tracce evidenti,  dalle terme al minareto (il più settentrionale dell’ Impero Ottomano) che si alza incongruo in pieno centro, ormai orfano della sua moschea e da dove ancora, tre o quattro volte all’anno, parte il canto del muezzin, mentre dalla chiesa di Sant’Antonio, quasi di fronte, un carillon segna le ore tre volte al giorno.

Il minareto di Eger e la luna

Eger è una piccola isola di storia, architettura e buon vino, troppo poco conosciuta rispetto alla sua bellezza.

Barocco esuberante nelle chiese, secoli di storia e di assedi nelle pietre del castello: i gialli delle facciate ed il grigio delle statue formano uno splendido contrasto per chi si avventura tra le stradine acciottolate del centro storico che offrono il classico scenario per turisti, bar e negozi di souvenirs, ma mantengono il loro fascino antico ed un po’ ritroso.

Eger Chiesa dei Minoriti e fontana moderna di Dobo Istvan Ter di notte

Al tramonto, poi, il fascino aumenta in piazza István Dobó : la luce è perfetta e la moderna fontana s’ illumina con i suoi giochi d’acqua.

Vini di Eger

Dappertutto ci sono negozi di vini:  Eger è la patria del vino ungherese, eccezion fatta per il Tokaj, che è un discorso a parte.

 Le cantine sono quasi tutte concentrate in una piccola valle ai bordi dell’ abitato, che porta un nome suggestivo: “Valle delle belle donne” (in Ungherese però il nome è praticamente impronunciabile: Szépasszony-völgy!).

E’ da qui che sale verso la città un sentore di fresco e di uva pigiata. 

Il risultato della vendemmia. Eger. Valle delle belle donne Szépasszony-völgy

E’ tempo di vendemmia ed il raccolto si concentra proprio nella Valle delle Belle Donne, dove arrivano in continuazione i trattori carichi di grappoli che verranno trasformati in mosto e resteranno ad invecchiare nelle cantine scavate direttamente nel tufo delle colline.

E’ qui che si produce il vino rosso di gran corpo chiamato Egri Bikaver che è un po’ il simbolo della città. 

Ma nel corso degli anni la produzione si è ampliata e diversificata e sono comparsi anche i primi vini bianchi (Egri Csillag, Stella di Eger).

Vendemmia ad Eger. Valle delle Belle Donne Szépasszony-völgyVendemmia ad Eger. Valle delle Belle Donne Szépasszony-völgyVendemmia ad Eger. Valle delle Belle Donne Szépasszony-völgy

In autunno l’ atmosfera nella valle è più indaffarata del solito, e c’è meno tempo da dedicare ai turisti, che non sono pochi neanche in questa stagione.

Se la ressa non fa per voi inforcate una bici oppure procuratevi un’ auto e guidate fuori città verso le colline che un tempo furono la protezione di Eger e contemporaneamente la sua maledizione e che  oggi sono una distesa di viti senza soluzione di continuità. 

Vigneti di Eger

Dirigetevi verso Nord-Est per pochi chilometri fino a raggiungere una collina ricoperta di vigneti: è il territorio del Grand Cru del vino di Eger, il luogo dal quale provengono le migliori bottiglie di Egri Bikaver. Qui c’è spazio per lunghe passeggiate nel silenzio, circondati dai caldi colori dell’ autunno che contrastano con il porpora cupo dei grappoli ed è facile dimenticarsi del turistificio attorno. E se capitate nel momento giusto potrete anche assistere alle operazioni di vendemmia.

Uva di Eger Egri Bikaver

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Plitvice, visioni personali

Pubblicato da Photos On The Road in 29/07/2018
Pubblicato in: Croazia, Fotografie, Racconti di viaggio, Viaggi. Tag: Croazia, Fotografia, Plitvice, UNESCO, Viaggi. Lascia un commento

Cascata mistica - Pltvice Croazia

“Ci sono venuto spesso a passare il tempo, al tramonto, testa leggera e cuore in festa, prendendo a calci i torsoli di mais, […] come se dovessi morire l’ indomani, cedendo a quel potere di dispersione così sovente fatale ai nati sotto il segno dei Pesci.”   (Nicolas Bouvier, La polvere del mondo)

Plitvice Croazia Lago inferiore

Poche parole oggi, e qualche immagine in più.

Laghi di Plitvice, Croazia, parco naturale devastato dalla guerra di fine secolo e poi restaurato mirabilmente.

Eterno scorrere, Laghi di Plitvice, Croazia

Un posto magico dove perdersi nei propri pensieri e seguire le proprie fantasticherie, riuscendo a sentirsi soli anche in mezzo ad una folla di altri turisti.

Da un mondo vicino, Laghi di Plitvice, Croazia

Ruvido abbraccia, Laghi di Plitvice, Croazia

Lussureggiante - Laghi d Plitvice, Croazia

Un mondo nascosto, Laghi di Plitvice Croazia

Vortice - Laghi di Plitvice Croazia

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Le scarpe sul Danubio

Pubblicato da Photos On The Road in 07/05/2018
Pubblicato in: Europa, Fotografie, Racconti di viaggio, Ungheria. Tag: Budapest, Fotografia, Scarpe sul Danubio, Viaggi. 1 Commento

Scarpe sul Danubio Budapest Ungheria 1

Se già lo sapete, ve lo aspettate.

Altrimenti, passeggiando a Budapest lungo la riva sinistra del Danubio ed avvicinandovi al neogotico Palazzo del Governo (uno degli edifici più fotografati della capitale ungherese) potrebbe sorprendervi la vista di un mucchio di scarpe di bronzo allineate in modo disordinato proprio sul bordo del lungofiume.

Scarpe da uomo, stivali, scarpe da donna con i tacchi, scarpette per bambini.

Scarpe sul Danubio Budapest Ungheria 3

Arte moderna. Si certo. Ma non solo.

Quelle scarpe sono un monumento, uno degli innumerevoli memoriali della brutalità nazifascista.

Agli inizi del 1945 la seconda Guerra Mondiale stava volgendo alla fine. Gli Alleati attaccavano sulle Ardenne e sul fronte orientale le truppe sovietiche si apprestavano a liberare Auschwitz.

Ma nei territori ancora occupati dal Terzo Reich le brutalità contro gli Ebrei continuavano. A gennaio, il destino della battaglia per Budapest era ormai segnato, la capitale era completamente accerchiata ed ogni via di accesso bloccata; i Nazisti ed i loro volenterosi spalleggiatori ungheresi del partito delle Croci Frecciate, non potendo più deportare gli Ebrei verso i campi di concentramento decisero di giustiziarli sul posto: li andavano a prendere nelle loro case, poi li radunavano sulle rive del Danubio, ordinavano loro di spogliarsi e lì giustiziavano, in modo che i loro corpi cadessero nel fiume e fossero trasportati via dalla corrente.

Tra la ressa da panico e le esecuzioni, erano in tanti a perdere le scarpe prima del colpo fatale. E proprio a queste scarpe perse dalle ultime vittime del genocidio ungherese fa riferimento l’ opera di Can Togay (un regista) e Gyula Pauer (uno scultore).

Scarpe sul Danubio Budapest Ungheria 2

Tre targhe installate nel cemento lungofiume recitano in Ungherese, Inglese ed Ebraico: “Alla memoria delle vittime giustiziate nel Danubio dai miliziani delle Croci Frecciate”.

Non sono però le targhe a colpire, ma la valenza iconografica del monumento (non per niente ad idearlo è stato un regista) che sembra trasportare immediatamente ai tempi di quelle atrocità. Queste scarpe di bronzo hanno la stessa valenza iconica degli stivali dei soldati nella Corazzata Potemkin, degli occhiali frantumati della vecchia signora: un effetto metaforico che evoca la brutalità senza mai realmente citarla e che lascia senza fiato, con un nodo alla gola.

Scarpe sul Danubio Budapest Ungheria 4

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Perla di lago: Ocrida

Pubblicato da Photos On The Road in 08/04/2018
Pubblicato in: Europa, Fotografie, Macedonia (FYROM), Racconti di viaggio. Tag: Fotografia, FYROM, Macedonia, Ocrida, Reportage, UNESCO, Viaggi. 2 commenti

Bandiera macedone al vento

Innanzitutto, la bandiera macedone secondo me è una delle più belle che ci siano.
È un sole giallo in campo rosso.
Ad Ohrid (Ocrida in Italiano) due megabandiere macedoni sono visibili un po’ da ogni angolo. Una sorge proprio sulla sommità della collina della città vecchia, e l’ altra al limite del porto.

Panorama della città vecchia di Ocrida dal porto

Ohrid è una bella città antica, e sorge sulle rive del lago che porta il suo nome. Un lago enorme e profondo, che dicono sia il più antico d’ Europa, con un’ età di oltre un milione di anni. Entrambi,a la città ed il lago, sono inclusi nella lista dei patrimoni dell’ umanità dell’ UNESCO.

Patience - Pescatore sul lago di Ocrida

Se ci si ferma a fissare la bandiera macedone, ben presto il sole ed i raggi scompaiono e resta l’ impressione di un centro dal quale partono fasci luminosi diretti verso la periferia.
Questa interpretazione pseudopsichedelica è un po’ anche la metafora della città di Ohrid, che nel Medio Evo, era uno dei principali centri culturali e spirituali dell’ Europa slava. Il centro da cui partivano merci ed idee.
Da qui passava la via Egnatia, asse di comunicazione tra il Bosforo ed il Mediterraneo, incunabolo di meticciati culturali; quasi tutti gli scambi dell’ impero bizantino con l’ Occidente passavano lungo questa strada, gli stessi Crociati seppero sfruttarla per avvicinarsi ai loro luoghi di battaglia. Durante l’ età dei Bizantini e poi degli Ottomani, nel periodo di splendore di Ohrid, la via Egnazia era percorsa in entrambe le direzioni da mercanti, eserciti, semplici viandanti, predicatori, invasori, esploratori, migranti, fuggiaschi. E tutti passavano da qui, e qui compravano e vendevano qualcosa.

L' angolo del relax - Città vecchia di Ocrida

Il bazaar della città, lungo la strada che dalla pianura porta al lago, li accoglieva tutti, a tutti dava e da tutti prendeva. Oggi non ha più le dimensioni di una volta, ed è poco più di una strada commerciale pedonale, però un paio di casette in pietra poste alla sua estremità, i minareti e le cupole delle moschee e la folla dei momenti di punta ricordano quello che doveva essere il mercato di un tempo.

Cupola di chiesa bizantina

Isolate sopra il caos del mercato, immerse nel silenzio delle foreste, le chiese di Ohrid ospitavano viandanti di ogni tipo e di tanto in tanto ne trattenevano qualcuno.
Furono costruite praticamente tutte durante il periodo bizantino quando Ocrida divenne sede episcopale ed un importante centro culturale.

San Pantelejmon - Ocrida

Il presbitero Clemente, ad esempio, che era nato non lontano da qui ma che per tutta la vita aveva percorso la via Egnazia in entrambe le direzioni al seguito di Metodio.
Clementre decise infine di stabilirsi sul lago e dispensò i suoi insegnamenti negli anni ad oltre 3.500 discepoli, favorendo la diffusione dell’ alfabeto glagolitico e della sua successiva modernizzazione, il Cirillico.Alfabeto glagolitico

Noi romanocentrici non ne abbiamo mai sentito parlare, ma mentre l’ Impero romano ormai smembrato languiva tra bizantinismi e revanscismi francotedeschi, qui nasceva un alfabeto che avrebbe diffuso la cultura e la religione ortodossa fino agli Urali.
Non per niente, a quei tempi Ohrid era chiamata anche la Gerusalemme slava, terra di santi ed intellettuali.

Holy Mother of God Chelnichka - Ocrida

Disseminate tra i boschi di una collina alta e ripida, antiche chiese e monasteri si affacciano sul lago. Cosa c’è di più tranquillo e stimolante per la concentrazione di un lago. E mi sembra di vederli, quegli antichi monaci, seduti con la faccia verso il sole calante, trovare nel monotono alternarsi delle onde la concentrazione mistica necessaria ai loro scopi.

San Giovanni a Kaneo - Ocrida

Dicono che un tempo ad Ohrid, di chiese ce ne fossero 365 e certo non le ho contate ma se ne incontrano ogni tre passi, grandi e piccole, meglio e peggio conservate.
Le più piccole e suggestive sono quasi tutte chiuse. Per entrare bisogna chiedere le chiavi a qualcuno nelle case vicine. Se è in casa e se ha voglia di venire ad aprire.
Per le più grandi l’ingresso è a pagamento, e gli stranieri pagano il doppio dei Macedoni.

Basilica di Santa Sofia - Ocrida

Ma non ci sono solo santi ortodossi nella storia di Ohrid, anzi gli edifici della città vecchia, che avvolgono ed a volte sommergono le 365 chiese, sono un condensato della stratificazione storica di un agglomerato urbano che per cinquecento anni è stato Turco. Prima e dopo di loro, qui ci sono passati Normanni, Bulgari, Bizantini, Serbi, Greci, Albanesi. Quasi tutti hanno lasciato una traccia, ma sono stati soprattutto gli Ottomani ad aver lasciato case, moschee, tradizioni e la loro eredità genetica che si è trasmessa e meticciata negli anni, ma si è conservata. I minareti di Ohrid non sono monumenti ed il venerdì i muezzin si sentono chiari chiamare alla preghiera. E santi cristiani sono sepolti a pochi metri da tombe di notabili musulmani.

Antiche strade di Ocrida

Ma Ohrid non è solo storia ed eremiti sul lago. La città vecchia, abbarbicata sulla collina, conserva ancora le tradizionali strade in pietra a gradoni convergenti verso il centro, dove un canale permetteva lo scolo delle acque piovane. Antiche architetture si mischiano con case più moderne, mentre scendendo verso la riva del lago si fa sempre più invadente la presenza di negozi, bar e ristoranti ad uso dei turisti, che qui non sono pochi, soprattutto d’ estate. Dal piccolo porto della città, soprattutto all’ alba ed al tramonto si gode una splendida vista sulla collina e sulle sue vecchie case. Ma il panorama più bello, secondo me è quello che si può ammirare camminano per una mezz’ oretta fino a raggiungere il versante alto della collina che domina la chiesa di San Giovanni a Kaneo, un piccolo monastero bizantino. E’ qui che si capisce l’ essenza dell’ eremitaggio degli antichi monaci, immersi nella natura e nel silenzio ed al cospetto di un meraviglioso panorama fatto di lago, montagne e riflessi. Bisogna venirci al tramonto, qui, per ammirare gli ultimi raggi del sole perdersi dietro le montagne che segnano il confine tra Macedonia ed Albania.

San Giovanni a Kaneo al crepuscolo - Ocrida

E dopo il tramonto, seguire il vecchio sentiero, ben illuminato, per tornare verso le rive del lago e verso l’ animazione di cui da quissù non c’è traccia. Un percorso romantico, in parte lungo una passerella di legno proprio sul lago, attraverso l’ antico borgo di pescatori di Kaneo, fino a raggiungere nuovamente le mura della città vecchia e l’ animazione del centro.

Ocrida Blue hour

Città vecchia di Ocrida all' alba

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Maramures: carri, cavalli ed internet

Pubblicato da Photos On The Road in 18/02/2018
Pubblicato in: Fotografie. Lascia un commento

Maramures landscape

“Questo è proprio il vero, profondo Maramures” mi confida Daniel mentre volge a me il suo sguardo, distraendosi dal panorama.

Splendidi prati e fienili nel silenzio; gli alti Carpazi sfumano bluastri a distanza nella nebbiolina del primo mattino.

Daniel, fotografo di Bucarest, ama davvero queste vallate parallele divise da colline verdissime che d’ autunno sono costellate di covoni di fieno.

Young shepherdess, Maramures, Romania

Il Maramures è l’ angolo dimenticato della Romania, una delle sue regioni più povere ed isolate, sulla quale il tempo si è riversato ad ondate, lasciando, nel ritirarsi, etnie diverse a condividere le valli abitabili: Ungheresi, Ucraini, Tedeschi, Rom e finanche Armeni si dividono le terre basse. Assieme ai Romeni naturalmente. Tutto il resto è montagna e foreste, lupi ed orsi. Più oltre c’è l’ Ucraina.  Qui non ci sono industrie, l’ economia si basa sull’ agricoltura e sullo sfruttamento delle immense foreste che ricoprono i Carpazi. Fieno e legname, ecco i prodotti di questa terra.

Cattive strade e treni lenti collegano questa regione con il resto della Romania; il soffio dei tempi qui arriva indebolito dalla distanza. In treno o in automobile, il risultato non cambia, le ore che dividono questa regione da Bucarest sono sempre più della metà di un giorno.

Ma grazie a questo isolamento, il Maramures è diventato il museo etnologico della Transilvania, il posto dove si conservano ancora usanze altrove scomparse, i costumi tradizionali, modi arcaici di misurare le distanze.

Maramures landscape

Questo lo scopro seduto ad una tavola imbandita, dopo la palincă di chiusura di un pasto abbondante. Avevamo da poco salutato una famiglia di contadini intenti a raccogliere barbabietole tra i covoni di fieno. Qualche foto e due chiacchiere, ma io potevo solo ascoltare senza capire; sentivo però spesso risuonare una parola con un suono simile a palmo. Una volta soddisfatte le esigenze dei nostri stomaci, chiedo a Daniel di quel suono.

“Parlavano del loro palmo di terreno, palmă de pământ”.

Non è solo un modo di dire; nel Maramures si usano ancora unità di misura tradizionali, collegate alle misure del corpo umano. Tutto ciò che è più o meno lungo un metro è râf, ovvero l’ apertura delle braccia di un adulto; cot è un cubito, ovvero la distanza dal gomito alla punta delle dita; țol è la lunghezza dell’ ultima falange del pollice, cioè più o meno due centimetri e mezzo, mentre palmă equivale all’ ampiezza di una mano con la dita estese. Palmo di terreno è una metafora per un piccolo appezzamento, un lusso da queste parti, dove le terre coltivabili sono poche e dove i confini di proprietà restano incerti dopo la collettivizzazione forzata dei tempi del Comunismo.

 

Raccogliendo barbabietole nel Maramures

L’ estate è finita e con essa se ne sono andati anche i turisti.

Sono passate anche le prime due settimane di settembre, il tempo in cui si miete il fieno per la seconda volta. I nuovi pagliai si susseguono su ogni versante, tanti puntini gialli sulle colline. E puntini più scuri in continuo movimento. Sono i contadini. Qui di trattori ed altri mezzi meccanici ce ne sono veramente pochi. Tutto il lavoro si fa a mano.

 

Maramures landscape

Ricordate quel gioco della Settimana Enigmistica?  Bisognava unire i punti per ottenere un disegno. Ecco, sul fondo verde delle colline del Maramures i punti sono gialli e si uniscono con la  fantasia. Basta spostare – con gli occhi – una linea ed il disegno si ricompone;  il gioco si fa onirico ed affascinante, si potrebber andare avanti per sempre, in un silenzio da tempi antichi, rotto solo dagli uccelli e dai versi delle galline, anche a bordo strada. Automobili, infatti, ne circolano poche ed il mezzo di trasporto più comune è ancora il carro a cavalli;  se ne vedono di tutte le dimensioni, dai piccoli carretti dove due persone stanno strette strette a farsi trainare da un cavalluccio magro e quasi malfermo sulle gambe, agli enormi carri per il trasporto del fieno, trainati da animali giganteschi e muscolosi, sui quali i contadini quasi si perdono, confusi tra  le dimensioni e la gran quantità di paglia trasportata. 

 

Maramures. Carro a cavalliMaramures. Mezzi di trasporto.

Loading the cart, Maramures, Romania

Sembrano allegri, intorno a mezzogiorno già di ritorno dal lavoro, fermi con i loro carri davanti un’ osteria ed insistono per dividere una birra con noi. Brindano alla mia salute, sorridono, non sono per niente timidi davanti alla macchina fotografica.

Poi ci salutiamo, e mentre me ne sto andando, il più anziano mi chiama e mi chiede qualcosa in Romeno che non capisco, ma due parole mi sono familiari: “Facebook? Internet?”.

Il vecchio vuole sapere dove può vedersi su internet! Gli lascio il mio biglietto da visita.

Maramures carro a cavalli e fieno

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Saluto al sole: lo spettacolo del tramonto a Zara

Pubblicato da Photos On The Road in 14/01/2018
Pubblicato in: Croazia, Fotografie, Racconti di viaggio. Tag: Croazia, Fotografia, Saluto al Sole, Tramonto, Viaggi, Zara. 2 commenti

Zara Saluto al sole

Il tramonto, a Zara, è uno spettacolo.

Alfred Hitchcock, che di immagini se ne intendeva, usava dire che dalla riva zaratina si può godere del più bel tramonto al mondo.  Ma dai tempi del maestro del thrilling qualcosa è cambiato, non solo nel cinema.

Quando è sera a Zara, ed il sole si avvicina all’ orizzonte, il mare, il cielo e la terra di fondono in uno spettacolo psichedelico che non ha uguali, capace di unire i colori della tecnologia a quelli del tramonto in un unico spettacolo.

Il waterfront della città dalmata non è solo un gran posto per passeggiare e godersi l’ aria di mare: ospita anche due pezzi di arte moderna, opera dello stesso autore ( l’ architetto Nikola Bašić), e strategicamente piazzati in prossimità,  per eccitare almeno due dei nostri sensi: la vista e l’ udito. E la fantasia.

Zara Saluto al sole

Il “Saluto al sole” è un’ enorme disco di vetro con delle celle solari che accumulano energia durante il giorno.

Detta così, è abbastanza arida.

Ma osservatelo, questo disco, verso sera, illuminarsi lentamente dei colori del tramonto che è di fronte; osservate le sue luci lampeggiare ed ondeggiare in modo casuale e psichedelico, mentre la gente ne è illuminata, si sposta verso i bordi e si avvicina di un passo all’ orizzonte irraggiungibile e che pure adesso ha gli stessi colori del suolo dove poggiano i piedi.

Zara Saluto al sole

Ogni tramonto d’ estate a Zara è un happening.

Eppure forse bisognerebbe un giorno visitare la città in pieno inverno, quando non c’è folla. Allora forse, mentre si osserva il disco di vetro cambiare colore, si riuscirebbe ad udire una strana musica.

Zara Saluto al sole

Si è musica, gli accordi sono precisi, ma il ritmo è ballerino ed instabile e la melodia davvero strana. Sembra non umana.

Ed infatti la crea il mare.

L’ Organo Marino sfrutta le onde e la marea per creare musica in modo assolutamente naturale ed è il complemento ideale al Saluto al sole. Non per niente entrambe le installazioni sono state realizzate dalla stessa persona e adesso sono lì a poche decine di metri l’ una dall’ altra, a rendere unico il lungomare di Zara ed irripetibile ogni suo tramonto.

 

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