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Vista dall’ alto, la vecchia città di Mykonos, bianca come una macchia di latte che si spande verso il mare scuro, punteggiata dai tetti e cupole delle chiese, celesti come il cielo pulito dal Meltemi o rossi come i fiori di lentischio.
La schiera di mulini a vento – tanto simili a quelli di Consuegra da sembrare in attesa di un Don Chisciotte in vacanza – guardano dritto verso la antiche case dei pirati di Little Venice, costruite a filo d’ acqua, con le onde che di tanto in tanto entrano a far visita.
Le stradine tortuose, bianche e celesti, un intrico di anfratti, angoli, scale, vicoli ciechi dove si divertono i gatti e dove ci si può perdere con incoscienza tanto prima o poi si tornerà al mare.
Ecco, la bellezza.
Ma questa è solo una cartolina.
La realtà è fatta di un deposito di auto abbandonate, arrugginite e polverose proprio sotto al poggio che regala la superba vista sulla città vecchia; dei disco bar di Little Venice che hanno preso il posto dei pirati ed aspettano il tramonto per riempirsi di gente che vuole applaudire il sole che cala; di vicoli assediati dalla paccottiglia e rigurgitanti folla che nemmeno Venezia a Carnevale. Non c’è posto per fermarsi un attimo ad ammirare una chiesa, c’è subito dietro qualcuno che ti spinge perché deve comprarsi una maglietta.
Mykonos ha venduto la sua anima al turismo, e forse ha fatto anche bene, perché qui della crisi che ha sconvolto la vita dei Greci sanno per sentito dire. Ma è un investimento che non avrà ritorno a lungo termine, quando l’ onda lunga dei villeggianti gaudenti si sarà ritirata. E prima o poi succederà. Guardate cosa sta succedendo con il Covid…..
L’ isola non ha più una sua economia produttiva, tutto si basa sui turisti in arrivo.
Non si pesca più, non c’è più allevamento. Il mercato del pesce è ridotto ad un banchetto di cemento nel mezzo del porto, ed il latte arriva con i traghetti.
Trovatelo un pezzo di Kopanisti, il formaggio piccante fatto con il latte di mucca, pecora e capra. Nei supermercati, forse; incellophanato, pastorizzato e privo di sapore. Era una specialità dell’isola, quando ancora vi pascolavano gli animali.
Ora ci sono boutique hotels ed infinity pools. D’ accordo tutto bello.
Il problema sarà riconvertirsi quando l’ industria del turismo avrà scoperto una nuova meta da sfruttare. Perché bisognerà ricominciare da zero, con poche risorse, senza acqua di fonte e senza più’ animali.
Ma qui non ci si pensa. E’ come andare a costruirsi casa sulle pendici di un vulcano. Bella vista e terreno fertile.
Poi arriva l’ eruzione.
Già che ci siamo, non ti piacerebbe un bel libro da tavolo, con tutte le mie immagini delle isole Cicladi?
Un libro da sfogliare per viaggiare con la mente in attesa di poterlo fare di nuovo davvero!
Nonostante i ritardi e gli inconvenienti, l’arrivo nei Balcani è da favola: la luce eterea del tramonto si spande sull’ arcipelago mentre il vento trasporta l’ odore speziato dei pini.
Le Bocche di Cattaro sono l’ enciclopedia acquatica delle contraddizioni della post Jugoslavia: scorci di una bellezza abbacinante, carcasse della marina jugoslava, antichi forti asburgici a presidio degli stretti e relitti di pescherecci; paesini veneziani dalla grazia immutata ed acque inquinate e spesso maleodoranti; il fascino e la pietra bianca di Cattaro sovrastate dalle mastodontiche navi da crociera che attraccano e vomitano gitanti frettolosi e distratti.
Proprio ai margini dell’ Europa, francobollato da parenti serpenti serbi ed a contatto con l’ Albania, il Montenegro è ancora alla ricerca della sua strada, economica e politica, ma nel frattempo riesce ad attrarre ricchezza verso la costa sfruttando le sue bellezze naturali e la cordialità della sua gente, che è vero che ha bisogno di venderti qualcosa per vivere ma lo fa con cortesia e spesso con grazia.
Perast: quattro case che scendono velocemente dal fianco della montagna fino al bordo del mare. Ma proprio bordo. Puoi sederti su una panchina per bere una birra a venti centimetri dall’ acqua. Quelle strade jugoslave costruite proprio a filo d’ acqua, senza protezioni, che mi hanno sempre affascinato ed incuriosito. Ma un’ onda di 50 centimetri qui non arriva mai?
Chiese, antiche dimore veneziane, case di pescatori e terrazze di ristoranti si inseguono senza soluzione di continuità.
Pochi se ne accorgono, perché i buoni sovrani sono elusivi e non impongono la loro presenza, ma a comandare a Perast sono i gatti. Schizzano ovunque, coccolati dagli abitanti del posto, rifocillati, ospitati nelle notti d’ inverno. Sono loro a permettere l’ accesso ad un vicolo, sono loro che, guardandoti di sottecchi, controllano che tu esca da una chiesa senza aver toccato nulla ed accettano sdegnosamente qualche coccola in cambio del favore che ti fanno mangiando il cibo che offri loro.
In fondo Perast è un borgo di chiese e gatti. Forse ci sono più gatti, ma forse, perché di chiese ce ne sono a dozzine, grandi e piccole, restaurate e in rovina.
Il regno felino si estende anche sul mare, fino alle due isole a qualche centinaio di metri dalla costa. Gli umani possono visitarne solo una, l’ altra il clero se la tiene tutta per sé.
Nostra Signora delle Rocce è una chiesetta con una cupola azzurro cielo che occupa la metà di un’ isolotto artificiale a qualche centinaio di metri dalla costa. Pietra bianca dalmata dappertutto, una vista sorprendente sulle Bocche e troppi turisti in giro in uno spazio troppo stretto. Ricercatori di pace e misticismo prego rivolgersi altrove. Magari di fronte, ma la chiesa di San Giorgio, sull’altra isola, è off limits. Per gli umani. I sovrani se ne infischiano dei divieti.
Cattaro non ha la raccolta bellezza di Perast, ma ha poco da invidiare al fascino di Zara o di Spalato se non per le dimensioni e per una certa aria di decadenza che nasce dalla storia, da una relativa mancanza di risorse e dall’ assenza dei contributi europei.
UNESCO protegge, ma non finanzia.
Vicoli color crema, scalini ed angoli appartati dappertutto, una piazzetta alberata dove regnano (anche qui!) i gatti. E non lo fanno con l’ altero understatement di Perast, no qui i felini regnano in maniera evidente, prendono possesso degli spazi, invadono le panchine, aspettano il tributo di cibo da parte dei bipedi umani.
Ma perché tanti gatti lungo queste coste? Una teoria che ha fatto breccia fra abitanti del posto fa risalire la presenza dei felini alla tradizione mercantile e marittima di queste coste. Nei secoli scorsi le tranquille acque della baia, protette da qualsiasi maroso, erano l’ approdo perfetto per i mercantili che facevano la spola tra l’ Adriatico e l’ Oriente. E sulle navi c’ erano gatti, per cacciare i topi, raccontano qui. Ed è normale che un po’ di questi gatti siano rimasti a terra dopo la partenza del loro vascello. Questa è la versione degli abitanti del posto, liberi di crederci. Magari vi ritroverete a rimuginarci sopra affrontando l’ impervia salita alle mura della città vecchia. Non lasciatevi spaventare dalla fatica, che è veramente tanta: sarete ricompensati con una vista spettacolare di Cattaro e della baia!
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V’è un luogo al centro d’Italia, al di sotto di alte montagne, celebre, e ricordato per fama in molte regioni, la vallata di Ansànto; da entrambe le parti con fitte fronde lo stringe una fosca fiancata boscosa, e nel mezzo scroscia in frastuono di massi e ritorta cascata un torrente. Qui una spelonca orrenda e di Dite spietato si mostrano gli spiragli e, irrompendo Acherónte, imponente voragine apre le fauci pestifere: e in esse svanendo l’ Erínni, nume odioso, alle terre e al cielo recava sollievo.
La Mefite della valle d’ Ansanto si fa introdurre dall’ immaterialità del suo alito: vapori di zolfo simpatici come un uovo dimenticato da tempo in cantina ti indicano la strada da seguire.
Il paesaggio è straniante e non si fatica a credere che gli antichi abbiano caricato la zona di significati magici: il laghetto ribolle e puzza ed ai suoi bordi i depositi minerali lasciano tracce multicolori. Visto dall’ alto dalla postazione oltre la quale è vietato andare per motivi di sicurezza dà l’ impressione di un campo di sabbie mobili psichedeliche. Non c’è vita lì in mezzo, di nessun tipo, sono lo zolfo ed i suoi derivati a farla da padrone: impediscono la crescita dell’ erba, avvelenano chiunque osi avvicinarsi troppo alle rive della Mefite. E lo sapeva già Plinio il Vecchio, che nella sua Naturalis Historia della Mefite dice che chi entra muore.
Ma allontanandosi sufficientemente pur se non più in dosi letali, lo zolfo di mantiene in sospensione e si deposita poi sull’ erba che nutre le le pecore che poi daranno il latte dal quale si ricava il prelibato Carmasciano: un formaggio che ha nel retrogusto piccante, che si incrementa con la stagionatura, la sua nota caratteristica. E sarebbero proprio i solfiti presenti nei pascoli a regalare al Carmasciano la sua tipicità, ultimo dono della dea Mefite, antica protettrice della fecondità femminile e della fertilità dei campi.
Per la verità è sempre a qualche dio personale che bisogna raccomandarsi per riuscire a provare il vero Carmasciano: la produzione è familiare, limitatissima. Si parla di poche migliaia di forme all’ anno, che già in autunno inoltrato sono introvabili.
Ma stiamo divagando, perché la Mefite che si preannuncia con i suoi miasmi non è la dea osco-sannita, bensì uno dei luoghi più misteriosi e pericolosi d’ Italia: gli antichi Sanniti ritenevano che proprio qui si celasse l’ accesso al regno dei morti. Da queste spaccature della crosta terrestre sarebbe improvvisamente spuntato Plutone sul suo cocchio trainato da quattro cavalli neri come la notte per rapire la bella Proserpina.
E qualche dubbio in merito potrebbe sorgere anche a chi finalmente arriva in vista del laghetto solforoso dal quale proviene il tipico odore che fa da guida. Non è particolarmente grande ed è profondo solo due metri. Una specie di stagno insomma, che ribolle a causa dei gas che provengono dal sottosuolo e che a contatto con l’ acqua si riscaldano ed emettono esalazioni tossiche e maleodoranti.
Capita spesso che ai bordi del lago giacciano carcasse di animali che non hanno capito il pericolo. Un pericolo mortale e traditore, perché evanescente come l’ aria: anidride carbonica, la cui densità e molto superiore a quella dell’aria. Da questa caratteristica fisica deriva in gran parte la pericolosità delle emissioni gassose. Infatti in presenza di condizioni meteorologiche particolari, calma e temperature basse, il gas tende ad accumularsi nelle depressioni formando veri e propri fiumi e laghi di gas. Le persone e gli animali che fortuitamente entrano in queste trappole invisibili sono destinati a morire perché la CO2 ad alte concentrazioni è estremamente tossica e per la presenza di altri gas velenosi come l’acido solfidrico.
Ma basta rispettare le indicazioni e non oltrepassare le recinzioni per poter visitare la Mefite in massima sicurezza, e magari – se il tempo lo permette ed il vento è giusto – facendo picnic a base di pane e formaggio Carmasciano nell’ area attrezzata allestita proprio ai margini della zona pericolosa.
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Marsa al Hamem, in Arabo: Baia delle Tortore. Col tempo il nome si è italianizzato e trasformato in Marzamemi. E già questo basta a capire quanti secoli di storia alberghino dietro queste pietre. Giù giù in Sicilia, alla stessa distanza dall’ Equatore di Capo Bon, delle Azzorre, di San Francisco. Ormai siamo al capolinea. Di fronte c’è solo mare, tanto mare. Se si potesse guardare oltre l’ orizzonte si vedrebbe Creta, che è proprio lì di fronte, giusto ottocento chilometri più ad Est.
Con tutto questo mare davanti, Marzamemi è il posto ideale per andare a pesca.
Gli Arabi costruirono qui le prime case proprio per andare alla ricerca di pesce. E che pesce! Nella stagione giusta soprattutto tonni.
Pian piano Marzamemi divenne una delle più importanti tonnare della Sicilia: “un ridotto di navi. Il mare abonda quivi di tonni e d’altri pesci marini, tutti buoni a mangiare” scriveva a metà del ‘500 Tommaso Fazello, monaco, storico, teologo, geografo a tempo perso ed eminente esempio della poliedricità dell’ uomo rinascimentale.
Attratti dalla pescosità del luogo da qui oltre agli Arabi sono passati gli Spagnoli e poi i Borboni prima dello sbarco di Garibaldi. Ed in tutti questi secoli e sotto tutte queste dominazioni Marzamemi ha continuato ad essere un piccolo borgo di pescatori, circondato da saline.
Ma ogni storia ha la sua fine e quella di Marzamemi si concluse alla fine degli anni ’60 del secolo scorso per sopravvenuta mancanza di materia prima: i tonni erano ormai stati sterminati.
Poi è arrivato il turismo.
Il vecchio borgo che ospitava i tonnaroli e le loro barche oggi è un ritrovo chic affollato di baretti e ristoranti. Il palazzo dei Principi Bonaccorsi di Reburdone è un albergo extralusso, il deposito delle imbarcazioni un locale per matrimoni à la page.
Delle vecchie tradizioni della caccia al tonno non resta più niente.
Ma la bellezza, quella sì che resta.
Un’ antica chiesa di arenaria guarda il mare attraverso un arco, la grande piazza del borgo al tramonto si accende di colori caldi che rinvigoriscono il giallo dei tufi. Nel cielo abbondano le tortore, ma nella stagione giusta ci sono anche fenicotteri e cicogne che sostano nelle paludi di Vendicari per riposarsi durante le loro lunghe migrazioni
Fuori, il porticciolo ospita ancora qualche barca da pesca, che galleggia placida mentre scende la notte.
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E poi la fine del percorso arriva quasi inattesa: una casa di legno e neanche una piattaforma.
I binari terminano lì e poco oltre inizia l’ Ucraina.
Non resta che sganciare il carro con il fieno e dire addio al buon profumo che ci ha seguito per un giorno e mezzo.
I vagoni con il carico da trasportare a valle sono già pronti, quelli vuoti vengono sganciati per il prossimo carico; la locomotiva esegue la manovra e si posiziona in coda al convoglio. I ganci scattano, il treno è pronto.
La via del ritorno sarà più veloce, con la locomotiva a rallentare i vagoni in discesa libera ed i frenatori al lavoro di gran lena a chiudere e rilasciare le ganasce. Perché poi bisogna anche evitare che i freni si surriscaldino.
Quando era ancora vivo, Claudio Lolli cantava della tristezza del viaggio di ritorno:
dopo ogni esperienza, ogni fuoco ogni avventura, c’è la triste partenza
l’ esorcismo per questo spleen è spesso semplice:
un treno che mi porta via, al mio fondo di mare, alla mia osteria.
Lungo la linea della Mocanita osteria non se ne trovano, e però quando siamo ormai in prossimità della stazione, quando la valle è larga e quasi pianeggiante, con il Vaser che scorre placido nel suo letto di sassi, ci si offre qualcosa di simile e sorprendente: c’è della gente attorno ad un fuoco, un uomo di mezza età indaffarato attorno ad un gran recipiente di rame e tre donne che lo aiutano.
Ma cosa stanno facendo?
Intendersi è come al solito difficile. Hai voglia a dire che il Romeno è una lingua di origine latina. Dopo secoli di slavizzazione i suoni sono di gran lunga cambiati e per chi non la conosce la lingua sembra più simile all’ Ucraino che al Latino.
Per fortuna interviene uno dei Daniel del treno che fa da traduttore e mi spiega.
Stanno distillando grappa! La famiglia si sta preparando la razione per l’ inverno.
La grappa purifica, disinfetta e santifica, dice il proverbio.
Se poi è fatta con le proprie mani, ancor di più, aggiungo io.
Ma con l’ acqua di un fiume che scende da una montagna crivellata di miniere e dove chi lavora a segare gli alberi non ha a disposizione servizi igienici?
“Si certo che l’ acqua del fiume è inquinata – risponde Daniel – ma non è un problema, perché viene adoperata solo per raffreddare l’ alambicco e non entra in contatto con i liquidi alcoolici. “
Una prova sul campo della qualità del prodotto con estrazione diretta a mezzo di una caraffa di plastica, mi convince che Daniel ha ragione.
Una caraffa di grappa! Buona e profumatissima. Però non l’ ho bevuta tutta…
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E’ quasi mezzogiorno ormai, ma la luce resta sfuggente ed il fumo della locomotiva si mischia ancora con le nuvole; il cielo è sempre più basso mentre Cozia continua pazientemente a trascinare su per la valle il suo carico. O forse siamo noi che ci stiamo avvicinando alle nuvole mentre continuiamo lentamente a salire.
Sotto il cielo grigio tutto è verde. L’ occhio umano è più sensibile alle sfumature del verde rispetto agli altri colori; è un antico retaggio di quando vivevamo nelle foreste ed eravamo allo stesso tempo prede e predatori. Poter distinguere sottili variazioni nel verde costante che ci circondava ci aiutava a definire i pericoli ed a scorgere il nostro prossimo pasto. Qui, oggi, le sfumature di verde ci sono probabilmente tutte, strette tra il fiume e l’ acqua che cade dall’ alto. Ma non ci sono prede o predatori in giro. Solo un trenino che sbuffa salendo ed una vaga sensazione di noia che si sta impossessando di me.
Siamo entrati ormai nell’ ultimo tratto della ferrovia; questo è il regno dei boscaioli. Ma non boscaioli alla Ion con ascia e cavalli. Qui ci sono motoseghe e trattori per trascinare i tronchi fino al deposito. Qui si lavora a ritmo industriale per rifornire di legno la fabbrica.
La valle ormai è strettissima, c’è spazio giusto per il treno e per il fiume, che qui è ancora un ruscello. Piove sempre, acqua sottile ma costante che ti inzuppa l’ animo.
Oltre al profumo pungente delle conifere, nell’ aria c’è ancora l’ aroma dolce del fieno che stiamo trasportando da quando siamo partiti. Profumi di primavera in una grigia giornata d’ autunno.
Attraversiamo il villaggio fantasma dei minatori. “Qui vivevano in tanti – mi racconta un altro Daniel – avevano elettricità e televisione, stanze riscaldate e costruzioni di cemento, cose che a valle gli altri potevano solo sognare.”
Comodità destinate ad alleviare il rigore di una vita trascorsa sottoterra ad estrarre ferro, piombo, carbone.
Con la transizione all’ economia di mercato le miniere sono passate in mano di investitori stranieri, più attenti ai costi. E si sono rivelate dei pessimi affari. Per ricavare utili si è deciso di risparmiare dove si poteva, ovvero sul personale e sulla sicurezza. Incidenti ed inquinamento erano all’ ordine del giorno.
Così, tra deficit di bilancio ed istanze ecologiche, le miniere di questa valle hanno finito per chiudere.
Peccato che non si sentano voci ecologiste a denunciare lo scempio che si sta realizzando di queste foreste, che sono ancora oggi dimora di una notevole biodiversità, dall’ orso bruno al lupo.
L’ abbattimento di questi alberi secolari procede senza sosta. E’ vero, per ogni albero abbattuto ne viene piantato un altro. Un giorno queste pianticelle nane cresceranno; se nel frattempo le piogge e la neve non si saranno portate via tutto il terreno. Ma ci vorranno comunque decenni. Tempo sufficiente per far sparire la biodiversità dell’ area. Cosa se ne fanno linci, orsi e lupi di un crinale di montagna tappezzato di abeti nani?
“E’ l’ ipocrisia ecologica dei paesi ricchi – conclude Daniel – che salvaguardano le proprie foreste e comprano il legno – che comunque serve – a quattro soldi dai paesi dell’ Est Europa, dove evidentemente la biodiversità è meno importante.”
Fine 5 di 6. La prossima puntata sarà pubblicata domenica 26 maggio Le altre puntate sono qui:
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Mattina presto, la luce filtra appena tra i picchi dei Carpazi e le cime delle conifere.
Fa freddo. Le nuvole basse si confondono con il fumo della locomotiva che acquista pressione, mentre i sensi ancora intorpiditi dal sonno rifiutano di definire le ombre informi degli oggetti attorno.
In questo mondo privo di contrasto, sono le sensazioni a predominare: il silenzio e l’ umidità, avvertire la massa nera della locomotiva, senza vederla del tutto.
I pensieri sono le ombre delle nostre sensazioni, diceva Nietzsche. Sempre più oscuri, più vani, più semplici di queste.
Un brontolio dello stomaco mi ricorda che sarebbe anche ora di colazione.
Abbiamo dormito in capanne di legno senza elettricità e senza servizi, ma la notte è stata breve, prima delle quattro ha suonato la sveglia per i macchinisti.
Nel freddo dell’ estremità della notte tocca a loro riaccendere il fuoco e riportare in pressione la locomotiva; perché l’ ombra sprigionerà una scintilla, è già stato scritto. Ci vogliono ore, ed è solo l’ inizio di una lunga giornata.
Ion porta in testa un cappello di feltro grigio e cammina con le ginocchia piegate, come i contadini ucraini di Joseph Roth. In fondo la Rutenia è proprio lì, dietro quella cresta di monti. Le sue mani grosse e pesanti e la sua risata aperta hanno dominato la scena a cena, ieri sera.
Tutti riuniti sotto un chioschetto circolare, i macchinisti, i meccanici, Ion ed io, circondati dalla foresta e dall’ aria frizzante della montagna; la conversazione è andata avanti a base di birre e storie inverosimili di sesso e battute vecchio stile sulle donne. Insomma, credo fosse così, anche se capire era difficile. Poi è finalmente arrivata la zuppa, calda e ricca, e le voci si sono quietate.
Appena il cielo si è schiarito, Ion è partito con la sua scure ed i suoi cavalli, seguendo per un tratto i binari; poi si è perso tra gli alberi del crinale. E’ un boscaiolo alla maniera antica: niente mezzi meccanici per il taglio degli alberi e per il trasporto dei tronchi. Si affida alle sue gambe storte, alle sue braccia e, per il trasporto, ad un paio di cavalli.
Giorno dopo giorno, con il sole e con la pioggia, ed ecco spiegato anche quel cappello.
Lo sfruttamento di queste immense forteste iniziò nel diciannovesimo secolo, quando questi posti appartenevano all’ Impero Austro-Ungarico. I grandi proprietari terrieri arruolarono Italiani e Sloveni per dare avvio all’ opera, perché questi conoscevano l’ uso della sega, mentre da qui non si andava oltre l’ ascia.
Ion abbatte gli alberi, con l’ aiuto dei cavalli trascina i tronchi a valle e li accatasta, in attesa che il treno li prenda in carico e li porti alla fabbrica.
Prima della costruzione della segheria a valle e quindi della ferrovia, i tronchi venivano fatti scivolare giù per mezzo di canalette costruite lungo i fianchi della montagna. E poi per fluitazione continuavano il loro viaggio verso le acque più profonde del Tibisco.
Ion ha una forza incredibile, riesce a mantenere due cavalli e gli servono pochi colpi per abbattere un albero; ma questo non toglie nulla alla gentilezza innata del suo carattere e dei suoi gesti. Me ne accorgo quando si china a raccogliere un porcino nascosto sotto un tronco marcio e me lo mostra. Ha mani grandi ma non tozze e dita lunghe dalle unghie sorprendentemente ben curate. Non la diresti la mano di un boscaiolo, ma poi cambi subito idea quando lo vedi al lavoro.
Fine 4 di 6. La prossima puntata sarà pubblicata domenica 12 maggio Le altre puntate sono qui:
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